Torno a dirvi di non perdere la mostra antologica di Paolo Gioli, aperta fino al 28 maggio 2016 al Peephole di Milano. Sono noioso? Non credo, pensate che neppure tanti addetti ai lavori sono a conoscenza di questo evento imperdibile ed hanno avuto modo di frequentare questo Centro d'Arte Contemporanea diretto da Vincenzo De Bellis e Bruna Roccasalva. Ho intervistato proprio Bruna, per capire come è stata organizzata la mostra e com'è stato lavorare con l'artista.
Milano, 9 aprile 2016 Paolo Gioli firma le copie del dvd dei suoi filmati ai molti estimatori dei suoi lavori presenti al Peephole.
Tony Graffio intervista Bruna Roccasalva
TG:
Bruna che cos'è il Peephole?
Bruna Roccasalva:
E' un Centro d'Arte Contemporanea che abbiamo fondato nel 2009 e
funziona esattamente come una Kunsthalle. Organizziamo 4 mostre
personali all'anno cercando di proporre artisti di generazioni e
provenienze diverse. Cerchiamo di portare al pubblico artisti che non
hanno mai fatto mostre istituzionali in Italia, oppure quando
lavoriamo con italiani, come nel caso di Paolo Gioli, vogliamo
mostrare un punto di vista nuovo sul lavoro di quell'artista e far
emergere parti della sua produzione che sono meno conosciute e dare
una lettura inconsueta al lavoro.
TG:
Siete una galleria di tipo tradizionale?
BR:
No, non siamo una galleria, siamo un'istituzione no-profit che
realizza progetti "ad hoc" per questo spazio. A volte, si tratta proprio
di allestire qui lavori site-specific,
altre volte invece prepariamo delle mostre, come in questo caso, con
materiali già esistenti.
TG:
Avete scelto voi le opere esposte qui nelle 8 grandi sale di
Peephole?
BR:
Certamente.
TG:
Possiamo dire che questa di Gioli è una mostra antologica?
BR:
Sì, è in qualche modo una retrospettiva, anche se questo spazio non
è un museo e non è abbastanza grande da raccogliere tutta la vastissima opera
di Gioli. Però, l'impostazione della mostra è quella e c'è l'idea
di raccontare un percorso intero. Definiamola una
pseudo-retrospettiva.
TG:
Avete contattato voi l'autore? E' stato semplice pervenire a questa
mostra?
BR:
Sì, siamo stati noi, è stato abbastanza semplice perché Paolo è
una persona che vive fuori dai circuiti tradizionali ed ama la
semplicità in tutto. Non solo tecnicamente nel suo lavoro, ma anche
nella vita di tutti i giorni. Lui è un uomo molto generoso, come hai
avuto tu stesso modo di constatare. Per noi è stato molto bello
lavorare con lui.
TG:
Come avete proceduto nella scelta del materiale?
BR:
L'idea era di partire dalla pittura di Gioli e di sottolineare
l'importanza che questa prima fase della sua produzione artistica che
è meno conosciuta rispetto ad altri suoi lavori, ha continuato ad
essere presente, come tipo d'approccio anche nei suoi lavori
successivi. Infatti, anche dopo aver abbandonato la pittura, il suo
modo d'accostarsi agli altri media è rimasto quello di un pittore,
cosa che gli ha permesso di osservare in modo molto particolare sia
la cinematografia sperimentale che la fotografia. Al di là di
questo, noi pensiamo che la prima parte del suo lavoro abbia un valore
enorme, sia per la forza espressiva, la freschezza della sua
creatività, oltre che, naturalmente, per meglio comprendere il resto
della sua opera. Ciò che a noi premeva comunicare era di far
emergere la complessità della tecnica di Paolo Gioli che è qualcosa
che non è assolutamente catalogabile o circoscrivibile in
sperimentazioni cinematografiche, ma è qualcosa di molto più
difficile da spiegare, in cui tutte le varie discipline artistiche
hanno la stessa importanza. Sia che sia pittura, cinematografia, o
fotografia. Tutti i media che lui utilizza non sono identificabili in
una tecnica mista, ma sono interconnessi tra di loro in modo
sostanziale, in quanto ogni media implica la presenza degli altri.
Ecco, questo è quello che noi volevamo sottolineare con questa
mostra e speriamo di esserci riusciti. Naturalmente, quanto è qua
esposto è solo una piccola parte della vastissima produzione di
Paolo Gioli, però la selezione che abbiamo fatto tocca un po' quelli
che sono stati i nuclei fondamentali della sua ricerca e di temi ai
quali s'è dedicato per tutta la vita, che poi sono pochi temi
classici come: il nudo, il paesaggio e la natura morta, declinati poi
in tantissimi aspetti diversi.
TG:
Secondo te, Paolo Gioli ha un messaggio costante all'interno della
sua opera?
BR:
Sì, ha tanti messaggi da proporre, ma uno dei più importanti sta
proprio nel cercare di catturare le immagini nel modo più semplice
possibile, perché per lui le immagini hanno una loro consistenza
fisica, per cui si tratta solamente di riuscire a catturarla.
TG:
Parlando di prezzi, a quanto vengono vendute le opere?
BR:
Noi siamo uno spazio no-profit, come qualsiasi museo, o istituzione
pubblica non vendiamo.
TG:
OK, grazie, molto gentile.
BR:
Prego.
Bruna Roccasalva co-fondatrice e co-direttrice del Centro d'Arte Contemporanea Peephole
Riporto di seguito i testi prodotti da Peephole, che ringrazio, per la presentazione della mostra di Paolo Gioli.
Peep-Hole
presenta una
mostra personale
dell'artista Paolo
Gioli.
Paolo
Gioli dagli
anni Sessanta
porta avanti
una complessa
ricerca attorno
alla genesi
delle immagini,
alla natura
dell'esperienza estetica
e al
funzionamento dei
processi visivi.
Costantemente improntata
alla sperimentazione
tecnica e
linguistica, la
sua pratica
artistica si
muove con
disinvoltura tra
forme espressive
differenti che
spaziano dal
disegno alla
pittura, dal
film alla
fotografia, all'insegna
di una
contaminazione continua
che impiega
modalità di
derivazione cinematografica
per scopi
fotografici, e
un approccio
marcatamente pittorico
nell'utilizzo dei
materiali e
nella scelta dei
supporti.
Le
sue complesse
sperimentazioni sono
diventate un
punto di riferimento
nell'ambito
del cinema
sperimentale e della
fotografia contemporanea:
dalla riscoperta
e l'uso
radicale del
foro stenopeico
all'impiego di
strumenti auto-progettati o
oggetti trovati
per sottrarsi
a qualsiasi
legame con
l'ottica e
la meccanica,
dall'utilizzo inconsueto
dei materiali
Polaroid trasferiti
sui più
svariati supporti
come carta
da disegno,
tela, seta
serigrafica, alle indagini
sui processi
di sviluppo
o sulla
tecnica del
fotofinish.
Tuttavia
la complessità del
suo lavoro
non è
circoscrivibile
esclusivamente all'interno
della sfera
cinematografica o
fotografica. La
sua continua
sfida verso le
infinite possibilità
di ricavare
immagini da
circostanze spontanee,
legate alla
natura, al
corpo o
a oggetti
esistenti, è
stata portata
avanti all'interno
di un
campo d'indagine
ampio in cui
il cinema
incontra la
pittura, la
pittura incrocia
la fotografia
e viceversa.
La
mostra presenta
un corpo
di opere
che datano
dagli anni
Sessanta alla
fine degli anni
Novanta, a
rappresentare i nuclei
fondanti e
i temi ricorrenti
della
produzione di
Paolo Gioli,
attraverso una
selezione che evidenzia
il fondamentale
spostamento dalla
pittura al
cinema e
alla fotografia. Alcune
serie chiave
della sua produzione
come i
Fotofinish, le
Autoanatomie,
le
Naturae e
gli
Omaggi, si
affiancano
in
mostra
a
lavori
più
inediti
come
alcuni
dipinti
e
disegni
realizzati
negli
anni
Sessanta,
in
un
percorso
che
attraversa
in
modo
trasversale
la vasta
produzione
dell'artista
dimostrando
come il
passaggio
da
un
linguaggio
a
un
altro,
da
un
medium
o
da
una
tecnica
all'altra
sia
sempre
fluido,
biunivoco
e senza
soluzione
di
continuità.
PRIMO
PIANO Sala I
Il
lavoro di Paolo Gioli tocca tutti i generi classici della storia
dell'arte, dal nudo all'autoritratto, dalla natura morta al
paesaggio, elaborati di volta in volta in chiave del tutto personale
e attraverso l'impiego di linguaggi, tecniche e materiali differenti.
Resta costante in tutta la sua produzione l'interesse per il corpo e
uno dei motivi più ricorrenti è senz'altro quello del torso,
particolare anatomico sottoposto dall'artista a continue analisi e
scomposizioni, a partire dai disegni e i dipinti degli esordi, fino a
più recenti cicli fotografici. Nella serie di grandi disegni a
carboncino su carta, intitolati Primo Gruppo delle
Creature e realizzati tra il 1962 e il1963,
l'artista esplora il tema del nudo spingendosi verso anamorfosi
anatomiche che abbandonano progressivamente ogni connotazione
figurativa. I torsi, ispirati ai crocefissi duecenteschi subiscono
una distorsione e un trattamento quasi radiografico che si traduce in
una costante tensione tra pieni e vuoti, positivo e negativo. Il modo
diverso in cui Gioli affronta la fisicità della figura nei dipinti a
olio di grandi dimensioni - realizzati a metà degli anni Sessanta -
riflette l'avvenuto incontro con la Pop Art americana alla Biennale
del 1964 che si traduce in uno spostamento di interesse verso la
composizione dell'immagine. Le metamorfosi anatomiche dei
precedenti disegni diventano, in dipinti come Grande nudo
coricato sul lato destro
(1965) e Cristo morto (1965),
giustapposizioni di forme geometriche in cui la figura umana perde
ogni connotazione organica per farsi quasi meccanica. Grandi
campiture piatte dai colori accesi e dalla lucentezza metallica
schermano le sagome dei corpi e l'immagine nasce da una scomposizione
e ricomposizione, da un sezionare e un sovrapporre che allude già a
un'idea di montaggio cinematografico. Il torso torna a essere
protagonista in lavori più recenti, come la serie dei Toraci e
delle Vessazioni. In Toraci (2007 - 2010)
Gioli affronta l'iconografia classica del corpo "martirizzato”
scomponendo le anatomie impresse sulla pellicola fotosensibile
attraverso la luce e trasfigurandole in immagini evanescenti dalla
forte carica espressiva. Anche nella serie Vessazioni
(2007) l'azione dell'artista sembra martirizzare toraci e membra
di corpi deposti, in cui il richiamo alla statuaria classica si
mescola a riferimenti alle prime avanguardie del Novecento.
Sala
II
L'esperienza
a New York, dove Gioli vive per circa un anno tra la fine del 1967 e
l'autunno del 1968, segna un passaggio fondamentale nella ricerca
dell'artista. Da quel momento in poi il suo percorso sarà
contrassegnato dal continuo intersecarsi di pittura, cinema e
fotografia, linguaggi che nel lavoro di Gioli sono strettamente
interconnessi, al punto che ogni forma espressiva implica sempre e
inevitabilmente le altre due. Il film e le opere su tela degli anni
Settanta presentati in questa sala - serigrafie con interventi
manuali e dipinti a olio con inserti fotografici - testimoniano in
modo emblematico la natura di queste sovrapposizioni linguistiche,
mostrando come Gioli faccia cinema partendo dalla fotografia per
finire nella pittura, o viceversa come dipinga partendo dal cinema
per finire nella fotografia. La composizione di un'immagine
stratificata attraverso l'utilizzo di più media sta alla base del
film Immagini disturbate da un
intenso parassita (1970), uno dei
primi realizzati da Gioii e tra i più complessi e faticosi lavori
dell'artista sulle immagini-video. In quest'opera l'immagine prodotta
a partire da un quadrato e da altre forme geometriche che derivano
da esso, viene trasformata da una serie di interventi apportati
sullo schermo stesso del video, utilizzato dall'artista come lavagna
luminosa. Un film-collage che rivela, come altre sue produzioni
cinematografiche di quegli anni, numerosi livelli di immagini
nell'immagine e di schermi nello schermo. L'idea di schermo è
centrale nel lavoro di Gioli in quanto elemento che dà consistenza
fisica all'immagine, sia essa pittorica o cinematografica,
serigrafica o fotografica. Uno dei principi fondanti della sua
poetica è l'idea che l'immagine possieda un'intrinseca autonomia
fisica e che in virtù di questo abbia la potenzialità di
trasferirsi da un luogo a un altro, migrando dallo schermo
cinematografico alla tela e al supporto fotografico. Proprio a
partire da questa convinzione, nella prima metà degli anni Settanta
Gioli utilizza il termine "schermo' comunemente attribuito al
linguaggio filmico, per intitolare una serie di dipinti a olio con
inserti di carta fotografica (Schermo-Schermo, 1974) e
alcune opere serigrafiche ottenute da un collage di frammenti di
fotogrammi ingranditi e poi successivamente trattatati con del colore
e delle mascherature con ritagli di carta (Schermo-Schermo,
1975).
Se
questi lavori sono esemplificativi delle commistioni dirette tra
pittura, cinema e fotografica che contraddistinguono la pratica di
Gioli, Scomponibile (1970) testimonia come il suo
approccio stesso alla pittura sia da un certo momento in poi
marcatamente ispirato al linguaggio frazionato della pellicola
fotografica e del montaggio filmico.
Sala
III
Tutte
le opere di Gioli sono in un certo senso progettate e composte con un
approccio da pittore, come testimoniato dall'interesse e l'attenzione
per la composizione, o dal modo in cui concepisce e tratta la
materia - basti pensare al suo manipolare il materiale Polaroid come
fosse pigmento pittorico. Questo conferma non solo l'importanza
fondamentale che la produzione pittorica degli esordi riveste
all'interno del suo percorso, ma anche come !esperienza della
pittura - solo apparentemente rimossa in anni di continue indagini e
sperimentazioni all'interno di altri territori linguistici -
riaffiori in modo insistente e costante in ognuna delle successive
fasi della sua vasta produzione.
Il
capoluogo veneto - dove si trasferisce all'inizio degli anni Sessanta
per studiare all'Accademia Libera del Nudo - con il suo ricchissimo
patrimonio visivo storico e contemporaneo, rappresenta per Gioli il
territorio simbolico dell'introduzione all'arte e alla sua storia, il
luogo in cui si forma quella sorprendente ed eterogenea riserva di
memorie e suggestioni a cui attingerà costantemente. La molteplicità
di riferimenti rintracciabili nei suoi dipinti testimonia la vastità
della cultura visiva che alimenta la sua opera, in cui l'arte antica
di chiese, musei e palazzi veneziani si mescola a quella delle
avanguardie custodite nei libri dell'archivio storico della Biennale
e a quella della Pop Art americana che, sempre a Venezia, Gioii ha
modo di conoscere da vicino. I dipinti in mostra, tutti realizzati
tra il 1966 e il 1969, sono tra le sue più rappresentative opere
pittoriche degli inizi. Si tratta di tele dimensionalmente
importanti, dipinte a olio, tutte contraddistinte da un'estrema
policromia e dalla giustapposizione di vaste campiture geometriche,
caratterizzate da stesure piatte di colori dai toni accesi. I
riferimenti che vi si possono rintracciare sono molteplici così
come i soggetti da cui prendono le mosse: che si tratti di un
paesaggio come le navi che attraversano il canale della Giudecca - in
Trittico blu (1966)
- o della rivisitazione di una scena dipinta nel Trecento da
Buffalmacco - in Scomponibile (1966) -
ogni immagine viene trasfigurata in visionarie architetture
geometriche e complesse composizioni a sequenza, scomposta e
ricomposta attraverso un processo di tipo quasi meccanico e resa in
vorticose proiezioni che perdono ogni traccia di riferimento al
reale. In questo tentativo di comprimere e frazionare più istanti
temporali attraverso una successione di immagini che crea un unico
campo visivo, sono già evidenti i prodromi di un interesse
crescente per il cinema e la fotografia. A segnare simbolicamente il
progressivo passaggio di Gioli dalla pittura a questi linguaggi è
un'opera a carboncino e pastello del 1968 intitolata emblematicamente
The Big Lens: il
ritratto di un gigantesco obiettivo che svela la sua impellente
necessità di indagare gli elementi primari del dispositivo
fotografico e di avvicinarsi agli studi delle leggi fisiche
dell'ottica, delle strutture psico-percettive e delle modalità
storiche di ripresa.
PIANO
TERRA Sala IV
Nella
vasta produzione fotografica di Gioli una parte significativa è
quella dedicata alla sperimentazione del fotofinish. Il fotofinish è
una tecnica di ripresa semi-scientifica, frequentemente usata in
ambito sportivo per determinare l'esatto ordine di arrivo in una
competizione: attraverso il dispositivo del fotofinish la pellicola
scorre a velocità costante e viene impressionata solo in
corrispondenza di una fenditura verticale rivolta, nel caso di una
corsa per esempio, sul traguardo. Sono molti gli artisti che si sono
interessati a questa tecnica, operando spesso una
spettacolarizzazione di quello che è l'aspetto più caratteristico
del fotofinish, ovvero la distorsione delle figure. Per Gioli la
sperimentazione di questo dispositivo corrisponde alla naturale
evoluzione della propria ricerca sul foro stenopeico. Il "punto
trasparente", attraverso cui la luce entra nella fotocamera
trasportando con sé le immagini, si fa "linea trasparente"
generando figure che sono il risultato della registrazione di
molteplici gesti e movimenti, quelli compiuti dal soggetto davanti
alla fotocamera e quelli compiuti dall'artista che la muove. È su
questa linea, situata su una lastrina di metallo che sostituisce
l'otturatore, che l'artista interviene in modo quasi ossessivo, con
continui sdoppiamenti, amputazioni e incisioni. Per realizzare il
fotofinish Gioli mette a punto un personale dispositivo: una comune
fotocamera, privata del proprio meccanismo interno, che permette di
controllare manualmente lo scorrere della pellicola durante la
ripresa, come attraverso l'utilizzo di una cinepresa. In questo modo
si creano più movimenti in tempo reale: il movimento manuale della
fotocamera, quello della pellicola e quello del soggetto ripreso.
Sono due i cicli fotografici concepiti attraverso questa tecnica: il
gruppo delle Figure dissolute, che risale agli anni
Settanta, e quello di Volti attraverso, realizzato
tra il 1987 e il 2002. Nella prima serie i soggetti ripresi sono
personaggi quotidiani trasfigurati in quelle che lo stesso Gioli
definisce "cronofigure protocinetiche': Le dissonanze fra il
gesto dell'operatore e il movimento della figura, i frequenti
rallentamenti, le accelerazioni e le improvvise interruzioni generano
infatti nei soggetti una serie di raddoppiamenti, dilatazioni e
compressioni che vanno ben al di là della semplice deformazione
per spingersi a vere e proprie decostruzioni e ricomposizioni della
figura. Nella serie Volti attraverso gli
esperimenti iniziali si sviluppano in direzioni sempre più
complesse e articolate. La linea-fessura tradizionale del fotofinish
è sostituita da un frammento di immagine: l'artista dispone adesso
nella finestrella d'entrata della fotocamera alcuni elementi di
natura organica, come piccoli insetti o frammenti vegetali,
attraverso cui l'immagine del soggetto ripreso è "costretta"
a passare e, così filtrata, a subire un'inesorabile trasformazione.
Sala
V
Il corpo torna con insistenza nella ricerca di Gioli anche come immagine del desiderio e dell'erotismo, attraverso una cospicua serie di opere che hanno tutte come soggetto il nudo femminile. Quello dell'erotismo è un tema che si lega spesso in modo inscindibile alle indagini di Gioli sui fondamenti storici, culturali e ideologici della fotografia, per questo l'esplorazione ravvicinata e quasi tattile di particolari anatomici come il seno o il sesso femminile va di pari passo al complesso procedimento mentale e tecnico nella composizione dell'immagine.
È nel 1977 che Gioli inizia a fare uso del materiale Polaroid, sperimentando tecniche di trasferimento su supporti diversi come la carta da disegno e la seta, talvolta anche la tela e il legno. Nella serie delle Autoanatomie (1987), ad esempio, l'artista trasferisce su seta serigrafica l'impronta lasciata dalla luce sulla pellicola fotosensibile, recuperando la tecnica "a strappo" dell'affresco: "l'immagine - dice Paolo Gioli - staccata dai propri reagenti, dal suo negativo come una pelle dalla carne viva, perde lo smalto-fissatore-protettivo che viene assorbito dalla trama della tela o dallo spessore della carta. A essere rappresentati sono i simboli della sessualità femminile, immagini archetipiche capaci di conservare inalterato il loro potere evocativo anche nelle complesse composizioni geometriche in cui vengono giustapposte. Questa sovrapposizione di tecniche e supporti non ha niente a che fare con il collage, si tratta di "strati di materia”: materia pittorica e fotografica che Gioli rielabora all'insegna di una costante e reciproca contaminazione. Il gesto stesso di trasferire una materia che è il simbolo del consumo immediato e di immagini familiari su materiali nobili e antichissimi, è una questione centrale negli esperimenti di Gioli sulla Polaroid. Anche nel ciclo delle Naturae (2007) l'artista giunge all'immagine finale attraverso questa stratificazione di linguaggi diversi, trattando la pellicola Polaroid come una superficie pittorica. Si tratta in questo caso di ritratti frontali del sesso femminile in cui è inserito un fiore, immagini ambigue di "eccentriche vulve svelate da uno schermo-sipario" in cui maschile (il desiderio) e femminile (l'oggetto del desiderio) coincidono. Gioli interviene sulla superficie sensibile con molteplici tecniche (sfregamenti, tagli, pressioni, trasferimenti su altri supporti), e copre talvolta la metà superiore dell'immagine con uno strato di pittura acrilica combinando, ancora una volta, la meccanica del processo fotografico con la gestualità della pittura. Reiterando la rappresentazione dello stesso soggetto, Gioli sperimenta anche l'ottenimento di un'immagine fotografica attraverso la tecnica del negativo impressionato per contatto riflesso. Nelle opere intitolate Vulva (2004) l'artista arriva all'immagine colpendo con il flash un foglio di carta a contatto con l'anatomia femminile che, attraversato dalla luce, trattiene il riflesso prodotto.
È nel 1977 che Gioli inizia a fare uso del materiale Polaroid, sperimentando tecniche di trasferimento su supporti diversi come la carta da disegno e la seta, talvolta anche la tela e il legno. Nella serie delle Autoanatomie (1987), ad esempio, l'artista trasferisce su seta serigrafica l'impronta lasciata dalla luce sulla pellicola fotosensibile, recuperando la tecnica "a strappo" dell'affresco: "l'immagine - dice Paolo Gioli - staccata dai propri reagenti, dal suo negativo come una pelle dalla carne viva, perde lo smalto-fissatore-protettivo che viene assorbito dalla trama della tela o dallo spessore della carta. A essere rappresentati sono i simboli della sessualità femminile, immagini archetipiche capaci di conservare inalterato il loro potere evocativo anche nelle complesse composizioni geometriche in cui vengono giustapposte. Questa sovrapposizione di tecniche e supporti non ha niente a che fare con il collage, si tratta di "strati di materia”: materia pittorica e fotografica che Gioli rielabora all'insegna di una costante e reciproca contaminazione. Il gesto stesso di trasferire una materia che è il simbolo del consumo immediato e di immagini familiari su materiali nobili e antichissimi, è una questione centrale negli esperimenti di Gioli sulla Polaroid. Anche nel ciclo delle Naturae (2007) l'artista giunge all'immagine finale attraverso questa stratificazione di linguaggi diversi, trattando la pellicola Polaroid come una superficie pittorica. Si tratta in questo caso di ritratti frontali del sesso femminile in cui è inserito un fiore, immagini ambigue di "eccentriche vulve svelate da uno schermo-sipario" in cui maschile (il desiderio) e femminile (l'oggetto del desiderio) coincidono. Gioli interviene sulla superficie sensibile con molteplici tecniche (sfregamenti, tagli, pressioni, trasferimenti su altri supporti), e copre talvolta la metà superiore dell'immagine con uno strato di pittura acrilica combinando, ancora una volta, la meccanica del processo fotografico con la gestualità della pittura. Reiterando la rappresentazione dello stesso soggetto, Gioli sperimenta anche l'ottenimento di un'immagine fotografica attraverso la tecnica del negativo impressionato per contatto riflesso. Nelle opere intitolate Vulva (2004) l'artista arriva all'immagine colpendo con il flash un foglio di carta a contatto con l'anatomia femminile che, attraversato dalla luce, trattiene il riflesso prodotto.
Sala
VI
A
metà
degli
anni
Novanta
Gioli
lavora
a
una
serie
di
fotografie
in
bianco
e
nero
il
cui
titolo,
Sconosciuti
(1994),
allude
all'identità ignota
dei
soggetti
rappresentati. L'artista
attinge
a
un
fondo
fotografico,
risalente
all'immediato
dopoguerra,
donatogli
da
uno
studio
a
fine
attività: si
tratta
di
negativi
-
su
lastre
e
pellicole
-
con
i
ritratti
anonimi
di
uomini
e
donne
eseguiti
per
i
documenti
d'identità.
Ciò
che
più
interessa
l'artista,
oltre
all'indeterminatezza
dei
soggetti,
è
l'abile
intervento
di
ritocco
-
pratica
comune
in
quel
periodo
-
che,
eseguito
con
una
sapienza
quasi
artigianale,
aveva
lo
scopo
di
abbellire
e
rasserenare
i
volti
ritratti.
Gioli
interviene
su
questi
materiali
illuminando
con
luce
radente
il
retro
del
negativo
e
svelando
così,
attraverso
delle
macro-riprese
dei
riflessi
ottenuti,
le
innumerevoli
manipolazioni
a
cui
i
soggetti
erano
stati
sottoposti.
Con
un'attitudine
quasi
archeologica
Gioli riporta
alla
luce
le
fitte
stratificazioni
di
segni,
tracce,
impronte
depositati
su
quelle
immagini,
e
nello
svelare
il
laborioso
trattamento
di
ritocco,
conferisce
a
questi
volti
una
nuova
identità
o,
come
la
definisce
Gioli,
una
"contro
identità".
Queste
"fisionomie
ribaltate"
nascono
dunque
dall'inconsapevole
sovrapporsi
di
più
autorialità:
quella
del
fotografo,
dell'anonimo
ritoccatore
e
dell'artista
che
parte
dal
verso
-
il
lato
nascosto
e
privo
di
significato
-
di
quelle
immagini
trovate
per
costruire
la
sua
immagine.
Questa
ricerca
prosegue
con
il
film
Volto
sorpreso
al
buio
(1995).
Realizzato
con
la
tecnica
dello
stop-motion
a
partire
dagli
stessi
fotogrammi
della
precedente
serie
fotografica,
il
film
mostra
volti
anonimi
che
si
sdoppiano
e
si
fondono
in
un
unico
flusso
cinetico,
fino
a
far
emergere
dal
buio
un
singolo
volto
fluttuante.
Sala
VII
Nel
2009
Gioli,
forzando
nuovamente
i
confini
tra
fotografia
e
cinema,
ritorna
sulle
immagini
che
aveva
ottenuto
con
la
tecnica
del
fotofinish
per
realizzare
il
film
Il
finish
delle
figure
(2009),
in
cui
quelle
immagini
statiche
in
un
certo
senso
si
rianimano.
L'artista
fa
scorrere
i
rullini
da
35mm
che
aveva
impresso
con
la
tecnica
del
fotofinish
per
costruire
un
racconto
cinetico,
un
film
ricavato
da
immagini
fotografiche
che
possono
essere
definite
un
"non-film":
immagini
fisse
ma
nate
con
un
procedimento
di
natura
cinematografica,
dove
lo
scorrimento
di
ripresa
manuale
è
uguale
a
quello
di
una
cinepresa
senza
essere
una
cinepresa.
Sala
VIII
Negli
anni
Ottanta
Gioli
realizza
un
ciclo
di
opere
in
cui
rende
"omaggio"
ad
artisti
del
passato,
come
Courbet,
van
Gogh,
Dürer, Signorelli,
Piero
della
Francesca
o
Mantegna,
e
realizza
film
dedicati
a
Talbot,
Muybridge,
Lande,
Duchamp.
Ma
i
personaggi
su
cui
si
sofferma
maggiormente
sono
i
pionieri
della
fotografia
come
Niépce,
Bayard,
Cameron,
Poitevin,
Marey
e
Eakins
che
tanto
hanno
rappresentato
per
le
origini
di
questa
disciplina.
Nel
ciclo
di
Polaroid
intitolato
Eakins/Marey.
L'uomo
scomposto
(1982-83)
Gioli
cerca
di
fondere
Eakins
(l'uomo)
con
Marey
(l'azione)
mettendo
in
relazione
due
grandi
e
incompresi
sperimentatori
ottocenteschi:
da
un
lato
Thomas
Eakins,
pittore
realista
americano
ignorato
dal
suo
tempo
e
pioniere
nel
campo
della
fotografia;
dall'altro
Etienne
Jules
Marey,
noto
fisiologo
francese,
precursore
della
cinematografia.
Per
entrambi
la
fotografia
si
lega
soprattutto
al
tema
del
corpo
e
al
suo
movimento
e
rappresenta
un
nuovo
e
fondamentale
strumento
attraverso
cui
indagarlo,
analizzarlo
e
scomporlo.
Gioli,
oltre
a
rendere
omaggio
ai
due
grandi
innovatori,
intraprende
un'intensa
riflessione
sulle
potenzialità
del
processo
visivo,
facendo
affiorare
nessi
e
collegamenti
in
una
costruzione
compositiva
quasi
teatrale.
L'incontro
tra
la
connotazione
artistica
della
ricerca
scientifica
di
Marey
e
gli
esiti
tecnico-scientifici
dell'arte
di
Eakins
rappresentano
per
Gioli
l'idea
di
un'arte
capace
di
includere
ogni
disciplina.
Un'altra
importante
serie
di
omaggi
è
quella
dedicata
a
Joseph
Nicéphore
Niépce,
ricercatore
francese
vissuto
agli
inizi
dell'Ottocento
a
cui
viene
attribuito
il
fondamentale
passaggio
dall'incisione
alla
fotografia.
L'artista
ripercorre
la storia
di
quello
che
considera
l'inventore
assoluto
della
tecnica
fotografica
lavorando
a
partire
dal
ritratto
del
cardinale
D'Amboise, una delle immagini ricondotte con certezza a Niépce.
Questa
è
per
Gioli
un'occasione
per
confrontare
la
propria
creatività
con
quella
del
grande
innovatore,
di
paragonare
le
prove
di
Niépce
con
le
sue
sperimentazioni
sulla
materia
Polaroid,
tanto
da
giungere
ad
una
progressiva
immedesimazione
con
il
proprio
modello.
Le
opere
dedicate
a
Alphonse
Poitevin,
precoce
sperimentatore
del
colore,
costituiscono
per
Gioli
un'ideale
prosecuzione
di
quelli
dedicati
a
Niépce.
Si
tratta
di
studi
sul
volto,
così
come
avviene
anche
negli
omaggi
dedicati
a
Julia
Margaret
Cameron,
la
fotografa
inglese
celebre
per
i
suoi
evanescenti
ritratti
in
cui
restituisce
la
sognante
atmosfera
dell'epoca
vittoriana.
In
questa
serie,
intitolata
Cameron
Obscura
(1981),
l'artista
indaga
le
enigmatiche
e
sfuggenti
fisionomie
femminili
ritratte dalla
Cameron,
agendo
su
di
esse
con
una
serie
di
delicati
sdoppiamenti
e
ritmiche
frammentazioni.
Tutte
le
opere
ascrivibili
alla
categoria
degli
omaggi
sono
accomunate
da
una
complessa
stratificazione
di
tecniche
e
supporti. Spesso,
a
partire
da
immagini
fotocopiate
o
fotografate
e
poi
sviluppate
attraverso
diapositive
in
bianco
e
nero,
Gioli
realizza
una
prima
immagine
per
contatto
e
per
proiezione.
Su
di
essa
applica
delle
mascherine
di
carta
sagomate
che
una
volta
impressionate
produrranno
una
serie
di
geometrie
e
tagli e, infine,
attraverso
la
materia
plasmabile
e
fotosensibile
della
Polaroid,
avviene
il
trasferimento
su
carta
da
disegno
e
su
preziosi
frammenti
di
seta.
Queste
"rivisitazioni"
hanno
un
ruolo
importante
all'interno
del
percorso
compiuto
da
Gioli
nella
misura
in
cui
costituiscono
un
ulteriore
modo
di
andare
alle
radici
del
linguaggio
fotografico:
le
immagini
e
le
vicissitudini
dei
protofotografi
sono
interiorizzate
e
rielaborate
da
Gioli
in
prolungate
ricerche
che
trasformano
questi
modelli
in
altri
modelli,
a
testimoniare
come
il
suo
sguardo
rivolto
al
passato
non
sia
mai
nostalgico,
e
come
il
confronto
con
la
storia
avvenga
all'insegna
di
una
sperimentazione
e
una
ricerca
senza
fine.
Paolo
Gioli
(Sarzano di
Rovigo,
1942.
Vive
e
lavora
a
Lendinara,
Rovigo)
dopo
aver
frequentato
l'Accademia
di
Belle
Arti
a
Venezia,
alla
fine
del
1967
si
trasferisce
a
New
York
dove
vive
per
circa
un
anno
e
inizia
ad
interessarsi
al
cinema
e
alla
fotografia.
Tornato
in
Italia
nel
1968,
si
stabilisce
a
Roma
dal
1969
al
1975.
Nel
1969
realizza
il
suo
primo
film,
mentre
in
fotografia
comincia
a
utilizzare
la
tecnica
del
foro
stenopeico,
e
successivamente
del
fotofinish
e
dell'emulsione
Polaroid
trasferita
su
diversi
supporti.
Dagli
anni
Ottanta
partecipa
a
diverse
mostre
ed
eventi
espositivi.
Tra
le
principali
mostre
personali
ricordiamo
quella
all'Istituto
Nazionale
della
Grafica-Calcografia
di
Roma
(1981),
al
Musée
Nicéphore
Nièpce
di
Chàlon
s/Saòne
e
al
Centre Georges
Pompidou
di
Parigi
(1983),
alla
George
Eastman
House,
Rochester
(1986),
a
Palazzo
Fortuny
di
Venezia
e
al
Museo
Alinari
di
Firenze
(1991),
al
Palazzo
delle
Esposizioni
di
Roma
(1996),
al
Museo
di
Fotografia
Contemporanea
di
Cinisello
Balsamo,
Milano
(2008).
Dal
1974
a
oggi
ha
partecipato
alle
principali
rassegne
di
cinema
sperimentale
oltre
che
ad
importanti
mostre
internazionali
come
la
Biennale
di
Venezia.
Le
sue
opere
sono
presenti
nelle
collezioni
dei
più
grandi
musei
europei
e
statunitensi,
tra
cui
Centre
Georges
Pompidou
Parigi,
Art
Institute
Chicago,
MoMA
New
York,
Minneapolis
Institute
of
Art,
Istituto
Nazionale
per
la
Grafica
Roma,
Museo
di
Fotografia
Contemporanea
Cinisello
Balsamo
(MI) Nel 2016, la Harvard University lo invita a presentare i suoi filmati sperimentali agli studenti del prestigioso ateneo americano.
Peep-Hole e Frammenti di Cultura ringraziano Paolo
Vampa, collezionista e Daniele Fragapane per la consulenza curatoriale.
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