Tony Graffio è entrato nella camera oscura di Giancarlo Vaiarelli per farsi raccontare i dettagli del suo metodo di lavoro, affinato in 23 di anni d'esperienza con il platino palladio, e capire cosa abbia portato questo esperto stampatore a prediligere la tecnica che egli considera al di sopra di tutte le altre.
Giancarlo Vaiarelli con una sua stampa al platino-palladio realizzata per il fotografo di moda Settimio Benedusi.
Tony Graffio intervista in esclusiva Giancarlo Vaiarelli
Tony Graffio: Buongiorno
Giancarlo, a quello che mi risulta, tu sei tra gli ultimi stampatori
al platino-palladio, puoi raccontarmi qualcosa che riguarda la tua
formazione ed il tuo inizio di carriera?
Giancarlo Vaiarelli:
Buongiorno, io sono Giancarlo Vaiarelli, mi occupo di una forma di
stampa fotografica quasi in via d'estinzione, la
platino-palladiotipia ed io sono uno dei pochi che ancora la
pratica. La mia formazione, specificatamente legata a questa antica
tecnica, risale alla prima metà degli anni 1980, periodo in cui mi
trovavo in Inghilterra. Poi ho approfondito questo argomento negli
Stati Uniti d'America perché questo genere di stampa era molto più
diffuso in Nord-America piuttosto che in altre parti del mondo. Oggi,
forse le cose sono un po' cambiate.
TG: Cerchiamo di
conoscerti meglio, dove sei nato e quando?
GV: Sono di Roma Ostia,
classe 1957, ho iniziato con il cinema facendo la comparsa quando ero
molto piccolo, in un film interpretato da Aldo Fabrizi e da altri
attori di quell'epoca. Ho proseguito a lavorare nell'ambiente
cinematografico, poi ho fatto il fotografo di scena, poi, sono
diventato fotoreporter, potremmo anche dire paparazzo.
Ero a contatto con altri
fotoreporter di varie agenzie, tipo Associated Presse, France Presse
e così via, quando questi fotografi mi facevano vedere le loro
stampe, io lì ci vedevo qualcosa d'eccezionale perché erano
veramente ben fatte, come tecnica di stampa. Si trattava di
fotografie molto ricche di toni, stampe che io non riuscivo né a
rendere in quel modo, né a vedere da altre parti, da altri fotografi
italiani, tant'è che mi fu suggerito da un fotoreporter
statunitense, d'andare a specializzarmi nella stampa in bianco e
nero, in Inghilterra, più che negli USA, essendo la Gran Bretagna la
patria della stampa in B/N.
TG: Scusami Giancarlo, tu
venivi già da una famiglia che aveva a che fare col cinema?
GV: No, fondamentalmente
no, mio padre amava la fotografia e soprattutto la cinematografia,
lui si dilettava in queste forme espressive. Quand'ero piccolo
ricordo che lui mi puntava addosso sempre la cinepresa, perciò una
certa infarinatura credo d'averla avuta in questo senso. Da piccolino
poi, alle elementari, il mio maestro mi ha insegnato ad usare il
bilancino di precisione per preparare le varie chimiche. Ricordo
perfettamente quando preparammo insieme il mio primo sviluppo, il
famoso Kopdak D76 diviso. Ero molto giovane. A dodici anni ricevetti
in regalo una Kodak Instamatic 56 che ancora conservo; da lì piano,
piano s'è sviluppata questa passione. C'è stata la parentesi del
cinema, come comparsa, anche se all'inizio avevo il difetto di
guardare sempre in camera fino ed in un'occasione Aldo Fabrizi mi
disse molto simpaticamente: <A Regazzì, hai finito di guardare in
macchina? Se no te caccio via.>. A quel punto io mi gelai ed a
quel punto non guardai più nell'obiettivo della macchina. Sia
Fabrizi che sua sorella, la sora Lella, erano persone molto
simpatiche; fu una bella esperienza e credo che da lì poi sia
partito per me tutto l'interesse per l'immagine cinematografica e
fotografica. L'ultimo film in cui ho lavorato che è stato: Cento
giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara, un lungometraggio del 1984.
TG: Così dal cinema sei
passato alla fotografia?
GV: Sì, in quel periodo
quando avevo 14, 15, 16 anni facevo l'assistente fotografo per i vari
fotografi di scena e c'erano anche delle paparazzate che a dir la
verità erano costruite e concordate con i diretti interessati;
insomma non erano delle situazioni che si creavano così dal nulla...
Noi ragazzini contribuivamo a creare delle situazioni in cui poi
cascavano i vari attori ed attrici in voga in quel momento.
Quando partii per
l'Inghilterra per approfondire la tecnica di stampa in camera oscura
incontrai nel laboratorio dove ero andato a lavorare, premiato anche
della casa reale britannica, Roberto Marcotullio un ex fotografo
italiano, ex paparazzo, fu lui che all'inizio mi diede le prime basi
per poter stampare in maniera corretta con la capacità di poter
interpretare il lavoro del fotografo e poter realizzare stampe un po'
più creative che tecniche.
TG: A che età eri andato
a Londra?
GV: Avevo circa 24 anni.
TG: Da fotografo che eri,
sei passato subito a fare lo stampatore?
GV: Sì, ho
metaforicamente appeso la macchina al chiodo, anche se poi così non
è stato. Ho continuato anche a scattare fotografie, ma poiché il
processo al Platino-Palladio richiede la stampa a contatto,sono
passato ad utilizzare formati più grandi, ma ovviamente ero più
concentrato sulla camera oscura e camera chiara, anziché fare
fotografia per me stesso, o per altre persone. Roberto e Joe Andrews
sono stati molto importanti per la mia formazione; a loro devo molto
perché mi hanno sempre motivato ad andare avanti e cercare di
scoprire e attuare delle tecniche di stampa che per i più erano
sconosciute.
G. Vaiarelli con in mano una fotografia al platino-palladio stampata per Garth Meyer - Little African Story, Zimbabwe 1995
Partendo da un negativo B/N è stato ricavato un internegativo su pellicola fotomeccanica ai toni continui (Agfa N31P Non più prodotta) che poi è stato stampato seguendo la formula classica della cloro palladite 50% platino/50% palladio.
TG: Hai iniziato a
stampare la baritata B/N e poi sei passato al colore?
GV: No, diciamo che ho
quasi solo usato la baritata in bianco e nero, il colore l'ho
trattato poco, molto poco, non mi è mai interessato fare il colore.
E' a metà degli anni 1980 che mi sono avvicinato alla platinotipia,
una delle prime scoperte della fotografia. I primi studi di questa
tecnica risalgono addirittura al 1840, o poco più avanti. Il
brevetto è stato poi registrato nel 1872 da William Willis un
inglese che mise in vendita anche della carta pre-trattata per questo
tipo di stampa di grande qualità. I suoi brevetti vennero poi,
guarda caso, acquistati da aziende americane e da lì è partito
tutto. Però le formule che ci sono oggi sono ancora quelle, sono
rimaste così, intatte. Qualcosa è stato migliorato perché è stata
adottata un'altra tecnica di stampa, non molto differente, come per
esempio l'introduzione di formule al platino in forma sodica, più
che cloro. Questa formula dà alcuni vantaggi, ma non è che dalla
sua introduzione il platino classico è venuto a mancare, anzi... Sono
formule che comunque rimangono e rimarranno sempre, perché non c'è
niente da inventare in questo campo, sono cose molto semplici,
d'altronde la semplicità in fotografia è assolutamente di rigore.
TG: Per quale motivo ti
sei avvicinato al platino-palladio, hai visto una stampa che ti è
piaciuta, o ti è capitato di lavorarci per richiesta del cliente o
del laboratorio?
GV: Il primo motivo. Avevo la curiosità di vedere ciò di cui mi
avevano parlato i fotoreporter americani che avevo conosciuto a Roma.
Loro mi parlavano di queste tecniche quando io credevo esistesse
solo l'argento, o poco altro, come le tecniche al collodio e le carte
salate; io conoscevo queste 3 o 4 cose, non pensavo ci potesse essere
anche la Formula 1 della stampa fotografica, perché il platino-palladio è il punto d'arrivo delle stampa fotografica. Quelle prime
nozioni avute a Roma mi hanno stimolato, una volta a Londra, ad
approfondire questa conoscenza, vedendo anche determinate mostre. In
una, in particolare scoprii Dick Arentz e di lì fui determinato a
conoscere questa persona che divenne il mio maestro.
Mi misi in contatto con
Dick nei primi anni 1990 e feci un workshop con lui negli Stati
Uniti, sia in forma pubblica che privata. Posso dire che per me Dick
Arentz è stato un mentore, come per lui lo è stato Phil Davis e poi Weston e
Ansel Adams, visto che lui ha studiato anche con questi grandi
fotografi.
Tutto per me è partito
da Dick Arentz, poi sempre grazie a lui, io ho continuato a coltivare
questo seme che io avevo nel mio animo, fino a farlo crescere ed ad
avere la completa padronanza di questa tecnica molto particolare.
Già nel 1985, a Londra, avevo avuto un approccio con la stampa al platino, vidi che questa
tecnica mi era congeniale, però mi mancavano certe nozioni che mi ero
reso conto non riuscivo a capire, o a carpire allo stampatore al
quale ero affiancato in quel laboratorio.
TG: Dopo aver passato
circa 5 anni a Londra al Joe Basement ed in altri laboratori, che
cosa hai fatto?
GV: Dopo Londra, sono
venuto a Milano, ma dopo poco sono ripartito per approfondire tutte
le mie conoscenze, non soltanto per la platinotipia, ma anche per la
stampa ai sali d'argento ed altre tecniche. Mi sono recato a New
York,ma fondamentalmente ero andato in USA per andare in Arizona da
Dick Arentz, dopo di che sono stato anche in New Mexico, il mio
triangolo era quello, poi tornavo qui a Milano, dove io avevo già
aperto il mio laboratorio: ero sempre in movimento e spesso capitavo
anche a Londra, soprattutto per vedere quali erano i nuovi materiali
che venivano proposti da quelle parti, oppure che tipo di stampe
venivano richieste e quali tecniche venivano proposte e da chi. Alla
fine degli anni 1980 molte cose ancora non si vedevano qui in italia
e nemmeno a Milano.
Non c'era una cultura
tanto radicata di questa materia, tant'è che la maggior parte dei
miei clienti erano poi i fotografi stranieri, mentre dai fotografi
italiani ero poco conosciuto.
TG: Fammi qualche nome
dei fotografi che si rivolgevano a te.
GV: Bah, ho lavorato con
Albert Watson, con Doug Ordway, con Garth Meyer, Jason Baker, ho
fatto delle stampe anche per Bruce Weber, ne sono capitati altri. Ho
fatto un lavoro commerciale con Elliot Erwitt.
Garth Meyer - Steps
TG: Gli italiani non si
rivolgevano a te?
GV: Molto poco, per loro
non ero molto conosciuto, non ero del loro ambiente, però ho fatto
diverse cose per Vittore Buzzi, ma ne ho fatte anche per Giovanni
Gastel, ed altri, ma non ho mai avuto una certa continuità con loro,
ma non ho idea del perché. Ho dato un grosso apporto a molti giovani
fotografi per aitarli a crescere nella loro professione, ma anche loro
hanno aiutato me a maturare come stampatore.
Da file digitale è stata ottenuta, da G. Vaiarelli, questo acetato semitrasparente di una fotografia di Gian Paolo Barbieri da stampare a contatto per ottenere una stampa al platino-palladio.
Un provino per la stampa al platino della fotografia di Gian Paolo Barbieri eseguito da G. Vaiarelli.
TG: Spiegami perché la palladio-platinotipia è il metodo migliore per stampare una
fotografia.
GV: Ci sono tante forme
di stampa d'altri tempi che hanno un loro pregio qualitativo, o che
hanno una loro caratteristica specifica, ma le stampe realizzate col
Platino-palladio hanno qualcosa in più, danno più tridimensionalità
ed un effetto tattile all'occhio; lavorano sulle definizioni come
null'altro, anche perché il Platino ed il Palladio, essendo
materiali ferrosi, non perché non lo sia l'argento, solo che
quest'ultimo ha delle molecole diverse dai metalli più nobili,
riescono a dare maggior consistenza e definizione all'immagine.
Platino e palladio sono
costituiti da molecole molto fini riuscendo a creare una struttura
più ampia rispetto agli altri minerali ferrosi, infatti la ricchezza
dei toni grigi offerta dal platino e dal palladio non è paragonabile
a nessun'altra tecnica, né a nessun'altra chimica. Non c'è nessun
altro sale che riesce a dipingere l'immagine come il platino o il
palladio che possono essere legati l'uno con l'altro o separati,
comunque hanno caratteristiche che altri processi chimici non
riescono ad eguagliare. Sempre ammesso che l'immagine da stampare
disponga di certe particolarità, perché diversamente è anche
inutile legare questa lavorazione a dei materiali così nobili e
preziosi come platino e palladio.
TG: Qual'è lo scatto più
adatto ad essere poi stampato con questi materiali di cui stiamo
parlando?
GV: Non c'è uno scatto
vero e proprio, diciamo che da un punto di vista tecnico bisogna
magari operare con certe accortezze che sono un pochino diverse da
quando si va ad impressionare una stampa finale ai sali d'argento,
piuttosto che ad un altro meccanismo.
Bisogna partire da un
negativo ad altissima definizione per ottenere i risultati migliori
che possono essere espressi da questa tecnica.
Un negativo poco contrastato di un interno di un palazzo abbandonato nel deserto della Namibia.
TG: E per quello che
riguarda il contrasto?
GV: Bisogna cercare
d'arrivare nei dettagli, perciò bisogna avere un micro-contrasto
abbastanza accentuato, però, a questo punto il concetto viene da sé
perché per produrre una stampa a contatto è ovvio che ci vuole una
fotocamera di grandi dimensioni. Sarebbe meglio partire da un formato
come il 4X5 pollici per andare anche oltre, anche se oggi col
digitale è possibile eseguire stampe al platino palladio stampando
un negativo di grandi dimensioni da stampare poi a contatto sulla
carta preparata appositamente a questo scopo.
TG: Il gamma del negativo
adatto alla stampa come dev'essere?
GV: Ci vuole un negativo
abbastanza denso che abbia un gamma di circa 1,7 – 1,8 di
gradiente, anche se la cosa più importante è che ci siano molti
dettagli nel soggetto da poter essere riprodotti su negativo e, finalmente, sulla carta.
Non è necessario avere
un negativo denso per poter avere la classica nebbia che è
importante in una platinotipia, la cosiddetta fog, in inglese,
ma è importante partire da un'immagine carica di moltissimi
dettagli. Ci vuole una gamma tonale molto estesa perché il bianco,
come il nero non vengono mai presi in considerazione al 100% .
Il modo più diretto per
ottenere il dettaglio che cerchiamo è quello di utilizzare una
fotocamera di grande formato a pellicole piane.
Non è che non si possa
ottenere il dettaglio da una fotocamera più piccola, io ho lavorato
a molti progetti che hanno utilizzato negativi di cm 6X7, per
esempio, in alcuni casi sono partito anche dal formato 35mm, poi
basta fare un passaggio in più sulla pellicola fotomeccanica, almeno
un tempo si faceva così. Oggi puoi stampare un negativo di grande
formato anche in maniera digitale con un plotter a getto
d'inchiostro.
In questo modo il
digitale ci viene in aiuto, grazie digitale perché abbiamo tagliato
sui tempi e risparmiato sui costi, in questo modo. Possiamo partire da
un fotogramma di un rullino 35mm, acquisirlo in digitale con uno
scanner, elaborare un minimo il file con Photoshop per correggerlo un
minimo, dare il comando ad una stampante sulla quale, anzi che un
foglio di carta ha caricato un foglio d'acetato, inchiostrarlo e poi
mettere questo negativo digitale a contatto del foglio dove è stata
stesa l'emulsione sensibile che contiene platino-palladio.
Come formato finale,
possiamo andare dal 13X18, fino a formati che arrivano a cm 50X60,
non dico di più perché già diventa una stampa di un impegno
economicamente piuttosto gravoso, perché al di là della lavorazione
manuale, lasciamo e tralasciamo le esperienze e le conoscenze, ma già
soltanto le materie prime sono estremamente costose, quindi a maggior
ragione bisogna partire da immagini molto ben curate.
TG: A questo punto
possiamo dire che ci vuole un soggetto che abbia un certo contrasto
di scena per poter ottenere buoni risultati, o va bene anche un
soggetto che darà origine ad un'immagine abbastanza piatta?
L'interpositivo dal quale si ricava il negativo di grande formato che serve per essere stampato a contatto.
Il negativo da stampare.
GV: Partiamo dal concetto
che se un'immagine è irripetibile, unica nel suo genere, non dico
che sia l'immagine della vita e allora anche se questa ha dei
problemi tecnici, non è che sia instampabile, possiamo creare delle
strutture di negativi e internegativi in modo da migliorare
determinate caratteristiche tecniche per poter fargli trovare un suo
scopo nella stampa al platino, però avere un negativo ottimale è
tutta un'altra cosa.
Se per la baritata, la
gradazione di contrasto della carta parte da 0 e arriva a 5, con il
platino-palladio noi abbiamo una gamma d'estensione di contrasto
superiore, quindi tutti i negativi potrebbero essere stampati. Non è
questo il problema, la cosa veramente importante è avere la
ricchezza di dettaglio sul nostro negativo da stampare a contatto.
Certo, anche senza
ricchezza di dettaglio e gamma di grigi molto estesa, ma dovesse
essere tra virgolette monocromatico, se il negativo fosse molto
bianco con pochi contrasti, noi potremmo comunque stamparlo. Però
non potrebbe dare il massimo di quello che può esprimere la
platinotipia. Sarebbe un po' come avere una Formula 1 che gira a
Montecarlo, sicuramente un bel contesto, ma non potrebbe mai
esprimersi come lo farebbe in un circuito più veloce, come Monza, o
Silverstone. Questa è la differenza.
TG: Che problemi o
difficoltà può dare una stampa al palladio? Se ci sono delle
controindicazioni in questa tecnica.
GV: Sì, eliminiamo le
controindicazioni perché fondamentalmente non ce ne sono tante, o
meglio ce ne possono essere solo quando si trasformano i chimici dallo
stato solido (in polvere) allo stato liquido, lì chiaramente bisogna
stare un pochino attenti, però ci sono dei
preparatori e dei
distributori che ti possono dare già pronte delle liquid form.
Non è
neanche pensabile per un neofita mettersi lì con un bilancino di
precisione per preparare i chimici dalle polveri al liquido, pertanto
questo argomento non lo tratterei., anche se lì sicuramente ci
possono essere dei problemi. Altre controindicazioni in questa tecnica
io non ne vedo, si tratta però di un sistema di stampa molto
complesso, dove ci sono molte variabili che noi dovremmo tenere
presenti quanto più possibile.
Normalmente
per riuscire ad ottenere una buona stampa al platino sono necessari
anni di pratica e d'esperienza. Si praticano prove su prove, fare
qualche piccolo esperimento.
Storicamente,
il platino-palladio è anche un procedimento abbastanza ecologico. Lo
sviluppo è sì un potassio ossalato che potrebbe avere una sua
pericolosità se maneggiato scorrettamente, ma fortunatamente queste
sostanze sono riutilizzabili moltissime volte. Non si tratta di fare
3,4,5 stampe e poi buttar via tutto, io ho un potassio ossalato che
utilizzo da 22-23 anni che rabbocco mano a mano che lo uso e che
rinfresco con altro potassio ossalato, oppure aggiungendo acqua
distillata. Gli altri bagni chiarificatori non sono assolutamente
pesanti, alla fine sono dei carbonati, niente di nuovo, niente di
così stravolgente. Tra le tante tecniche fotografiche chimiche,
anche rispetto a quelle argentiche, la platinotipia è più
ecologica, cosa che non era stata compresa all'epoca di quando fu
brevettata la tecnica, nel 1873.
L'altro
aspetto che forse può distogliere molti fotografi da questa tecnica
è il fatto che per ottenere risultati di una certa qualità, bisogna
dedicare molto tempo allo studio ed alla pratica di questo tipo di
stampa. Ci vuole tanta passione, bisogna avere la classica luce
dentro.
TG:
C'è difficoltà nel reperimento delle materie prime? E' pericoloso
avere a che fare con queste sostanze?
GV:
In parte sì. E' vero che tutte le chimiche possono creare dei
problemi, non ce n'è una che si salva, da questo aspetto, a meno che
non si tratti del carbonato di sodio, è chiaro che quando le si
utilizza bisogna farlo con attenzione e rispetto. Tutto qui.
Ovviamente bisogna conoscere le sostanze che si usano, non è che
comprando un kit al platino palladio poi riesce subito ad ottenere
buoni risultati. Ma quanti bisogna comprarne, prima di fare una
stampa fatta bene?
TG:
Conviene rivolgersi subito allo stampatore professionista?
GV:
Questa chiaramente potrebbe essere la regola numero uno, poi ognuno
se vuol fare le sue prove è giusto che le faccia. Nessuno glie lo
vieta. Così facendo si può scoprire la propria vena legata alla
platinotipia.
TG:
Attualmente, quanti stampatori al mondo utilizzano questa tecnica?
GV:
Non ce ne sono tanti, ma quelli che ci sono si trovano
prevalentemente negli USA.
TG:
Riusciamo a quantificarli in un numero?
GV:
Credo che saremo circa qualche centinaio, non di più.
I
risultati si ottengono gradualmente, agli inizi, se non hai qualcuno
che ti finanzia ti devi finanziare da solo ed è una materia molto.
molto costosa, non è come comprare 10 fogli di carta baritata 30X40,
ho sbagliato la stampa, la strappo, la rifaccio e via. Eh no, qua non
è così.
TG:
Ci sono stampatori che dicono che con le tecniche digitali si
riescono ad ottenere risultati stupefacenti e sono molto soddisfatti
di questi sistemi moderni, secondo te, nel 2015 ha ancora senso
andare a ricercare il gusto, i toni del platino palladio, o ci si può
arrivare vicino a questi risultati, anche con una stampa a plotter?
GV:
Secondo me, possono passare ancora 1000 anni, ma la platinotipia
offrirà sempre qualcosa che tutte le altre tecniche non potranno mai
offrire. Per quanto riguarda il digitale? Benvenuto digitale, ma
scordiamoci così d'ottenere quell'effetto tattile che può offrirci
anche una banale stampa ai sali d'argento. Per non parlare della
possibilità di conservazione nel tempo offerta dalla platinotipia,
unica tecnica che ti permette d'avere una durata illimitata nel
tempo. Una di queste stampe durerà quanto può durare la carta.
A
questo punto bisogna fare molta attenzione al tipo di carta che si
impiega in questo processo. La carta al cotone o quella di fibre
vegetali è la carta classica da utilizzare per questi scopi.
Alcuni degli ingranditori usati da G. Vaiarelli
TG:
Tu utilizzi sempre lo stesso tipo di carta, o più tipi?
GV:
No, utilizzo due o tre tipi, anche perché preferisco evitare di fare
troppe sperimentazioni in questo campo. Bisogna arrivare ad una certa
semplicità delle cose all'interno di un processo molto complicato è
meglio rendersi la vita facile.
E'
inutile ricercare un'unicità attraverso la carta quando il
platino-palladio è già un trattamento unico in sé e per sé.
TG:
Cambiare tipo di carta significa introdurre nuove variabili?
GV:
Ci possono essere delle carte che ti danno un nero più profondo e
qualche accento sui dettagli, altre carte smorzano i neri e magari
lavorano meglio sui bianchi, però le caratteristiche, grosso modo
sono quelle, magari c'è la carta che s'asciuga un po' prima,
l'altra s'asciuga un po' dopo, una è più spessa, quindi ha una
grammatura più pesante, mentre quell'altra ha una grammatura più
leggera, ma se le carte sono buone,le caratteristiche sono più o
meno quelle.
TG:
Giancarlo, potresti descrivermi questo processo di stampa nelle sue
varie fasi, per cortesia?
GV:
Sì, senz'altro. Consideriamo le chimiche già pronte, abbiamo due
reagenti, una parte A ed una parte B, uno serve a sensibilizzare la
carta, mentre l'altro crea i contrasti, i due prodotti vanno
aumentati in scala, in modo da poter compensare i vari gradi di
contrasto. Se abbiamo un negativo molto duro abbassiamo il contrasto,
dando più A e abbassando il B. Se fosse troppo morbido invece
daremmo più B e meno A. Entrambe queste parti vengono dosate a
gocce, o a millilitri che siano sempre pari e mai dispari. Lo stesso
discorso vale anche quando andiamo a miscelare il platino con il
palladio, anche lì le due proporzioni devono essere uguali: 50% di
platino, 50% di palladio. C'è anche chi conferisce alla composizione
più platino o più palladio, anche questo è possibile, però per
semplificare la spiegazione, partiamo da una miscela che può essere 6
gocce di A, 6 gocce di B, 6 gocce di platino, 6 gocce di palladio.
Questa diciamo che è la mistura media, per una negativa media,
ovvero per un negativa giusta. Non vado a spiegare il fatto di come
ricavare una negativa di una certa dimensione da file digitali,
pensiamo di partire già da una negati va di cm 20X25 di dimensione,
quindi creata con un apparecchio a pellicola piana da 8X10 pollici.
Per quelle dimensioni, ci vorranno circa 5 millilitri di stesura.
L'insieme dei 4 componenti porterà a questi 5 ml. di prodotto,
oppure a 4ml.
Questa
è la base, il minimo necessario, per questo formato.
Si
seleziona un foglio di carta per la stesura della mistura che sarà
stata mescolata in un bicchierino di vetro. Si utilizzerà un
pennello di ottime caratteristiche per stendere il liquido sull'area
individuata per coprire il formato del negativo. La stesura va fatta
nel modo più omogeneo possibile. Questa operazione può essere fatta
anche sotto la luce di una lampadina al tungsteno di una potenza
sufficiente a controllare tutte le operazioni in maniera comoda.
TG: 40 Watt?
GV: Anche 60 Watt, ad una
certa distanza vanno più che bene. Essendo un processo che può
essere fatto alla luce va benissimo anche per chi soffre la camera
oscura.
Una volta steso
il prodotto, il foglio andrà asciugato con un asciugacapelli. Teniamo
già pronto il nostro torchietto con la nostra negativa. Una volta
che il foglio di carta è asciutto, lo posizioniamo a contatto con la
negativa nel torchietto, o nel bromografo. La parte emulsionata del
negativo andrà a contatto con la parte emulsionata del foglio di
carta.
E' importante che il
contatto tra le due superfici sia perfetto dopo di che andrà
posizionato il tutto sotto una fonte di luce che potrà essere o dei
bulbi al mercurio, o delle lampade UV,
o avendone la
possibilità, sotto il sole. Chiaramente per poter esporre alla luce
del sole bisogna trovare la giornata giusta che abbia il carico
sufficiente di luce ultravioletta, questo vuol dire che non ci
dovranno essere nuvole. Probabilmente questa cosa è più fattibile
al Sud Italia che alle nostre latitudini.
Una volta effettuata
l'esposizione che generalmente ha una durata di diversi minuti, il
tempo d'esposizione varia da un minimo di 4 minuti ad anche qualche
ora, prendiamo il foglio e lo mettiamo in una vaschetta vuota, dove
poi verseremo l'acido ossalico che viene conservato in un contenitore
di pyrex perché questo, normalmente, è uno sviluppo che va scaldato
intorno ai 36-37 gradi. L'acido ossalico va versato sulla stampa e
tenuto lì per circa 2 minuti. Bisogna sapere che l'immagine si è
già formata quando la carta è stata esposta e togliendo la carta
dal torchietto si vede già l'immagine impressa sul foglio,non in
maniera completa, ma visibile. Lo sviluppo serve a rifinire
l'immagine. Anche quest'operazione viene fatta alla luce. Io però,
durante i primi 10 secondi tengo tutto al buio.
TG: E' un tuo rituale o è
necessario farlo?
GV: Mah, ci potrebbero
essere dei problemi tecnici per i quali nel momento della rivelazione
si potrebbe creare della nebbia sulla stampa, il cosiddetto fog, e
non è una cosa tanto piacevole. Onde evitare questo problema si
potrebbe creare una punta di contrasto in più, nella preparazione
della stesura, quindi nella miscela dei componenti A e B, ma perché
crearsi ulteriori problemi? Basta spegnere la luce 10 secondi e si
sta tranquilli. Poi riaccendi la luce perché quando lo sviluppo
tocca la stampa, la reazione è immediata non bisogna aspettare
nient'altro.
Il passaggio successivo è
la chiarificazione, non c'è bisogno di fissaggio, la componente del
platino-palladio durante la fase di sviluppo ha già fatto tutto. E'
il classico sale bisodico EDTA che serve a togliere i residui chimici
sulla carta, niente di particolare e va fatto in tre bagni. Ci sono
anche delle altre strutture, non esiste solo l'EDTA, io a volte
faccio un mix di varie sostanze, per poter chiarificare al meglio le
stampe e dar loro una costante stabilità nel tempo. La stampa rimane
5 minuti in ognuna di queste tre vaschette di chiarificazione, sempre
con agitazione continua.
TG: Oltre a sviluppo e
chiarificazione di che cosa c'è bisogno?
GV: Dopo queste fasi del
trattamento c'è un lavaggio finale molto breve, 15 minuti in acqua
corrente sono sufficienti. Nel caso l'acqua sia troppo dura, si potrà
usare l'acqua distillata. Il lavaggio serve soltanto a liberare la
carta dalle sostanze presenti nella stesura dell'emulsionamento e
dell'EDTA, per togliere i residui di questi chiarificatori, tanto il
tutto va poi ristabilito, utilizzando un semplicissimo bano di soda
solvay, dopo il lavaggio in acqua.
La fase successiva è
l'asciugatura all'aria, in cui io stendo la carta su una rete senza
più toccarla. Io sono abbastanza contrario all'uso di rulli e carta
assorbente, la carta lasciatela vivere, non stressate le fibre, non
bisogna schiacciarle o sfibrarle. Dopo, quando la carta sarà
completamente asciutta, la potrai mettere sotto una pressa per
rendere il foglio quanto più piatto possibile. Ad ogni modo si
tratta di carte abbastanza pesanti di almeno 240gr, usare carte più
leggere non avrebbe senso.
G. Vaiarelli ed il suo "boccione" di vetro che contiene il prezioso sviluppo al platino-palladio invecchiato di ben 23 anni.
TG: Che cosa possiamo
riutilizzare di questi trattamenti?
GV: In assoluto, lo
sviluppo. L'avevo già detto, ma lo rispecifico: io ho uno sviluppo
che è lì da 23 anni. Lo rabbocco di volta in volta, ma lo utilizzo
solo per fare determinati lavori. Quando io percepisco che c'è un
progetto con un certo tipo d'immagini, io utilizzo quello sviluppo.
Uno sviluppo d'annata si va a caricare di ioni per le precedenti
stesure. Guardando la bottiglia dello sviluppo in controluce si può
vedere come sul fondo rimane del nero. Quelli non sono altro che i
resti del platino e del palladio che aiuta a ricreare il dettaglio
nelle prossime stampe che verranno effettuate.
TG: Ok, ma cosa succede
poi aggiungendo gocce di prodotto per rendere lo sviluppo più
morbido, o più contrastato?
GV: No, è possibile
creare uno sviluppo adatto a creare contrasti più o meno adatti al
negativo da stampare, ma in quel modo otteniamo dei dicromati che è
un discorso diverso da quello che stiamo facendo. Ciò non significa
che sia impossibile ottenerli, ma che utilità avrebbe ottenere 10
diverse bottiglie con prodotti diversi da 3 litri cadauno, a seconda
del contrasto da dare alle immagini? Diventerebbe un po' scomodo, sì,
io posso modificare i contrasti anche con lo sviluppo, non soltanto
con il prodotto A e B di cui parlavo prima, lo potrei utilizzare, ad
esempio, anche non mettendo il B ed impiegando solo il dicromato in
sviluppo, aumentando così la gamma di contrasto, ma secondo me
questa operazione è preferibile farla in fase di stesura
dell'emulsionamento sulla carta.
Usando i dicromati ci
sarebbe troppo dispendio nell'utilizzo di materiali preziosi,inoltre
il dicromato ha una sua pericolosità se viene inalato. Era una
chimica grezza che veniva utilizzata agli albori della fotografia e
che può essere utilizzato anche ai nostri giorni, ma questo fatto
non ci mette al riparo da una formula che rimane pericolosa.Le
formule non cambiano, rimangono quelle, noi non abbiamo inventato
nulla, non è che oggi esista una formula sicura perché siamo nel
mondo moderno...
TG: La tua amicizia con
Dick Arentz prosegue?
GV: Certo, ci siamo visti
anche lo scorso anno, proprio in questo periodo, lui era venuto in
Italia per scattare delle fotografie che voleva inserire in un suo
nuovo lavoro, poi lui ama molto l'Italia, anche perché ha avuto una
moglie d'origine italiana.
TG: Dick però ha
cambiato un po' la sua tecnica, vero? L'ha resa maggiormente
digitale, perché?
GV: Il platino-palladio è
sempre quello, però adesso Arentz, non utilizza più fotocamere di
grande formato (12x20 inch), ma fotocamere digitali, dalle quali poi
ricava dei negativi stampati su acetati per mezzo di plotter
digitali. Non utilizza più la sua fotocamera di legno di formato
panoramico, soprattutto perché alla sua età diventa problematico
girare il mondo da solo con al seguito casse e bauli pieni di
attrezzatura fotografica di grandi dimensioni, ma immaginatevi che
bellezza e che profondità poteva avere una stampa a contatto da un
negativo di cm 30x50...
Adesso lui utilizza una
fotocamera digitale full frame, come fanno molti altri
fotografi che si occupano di questa tecnica. Corregge il suo file con
Photoshop, anche se, fotografi come lui, han ben poco da sistemare su uno
scatto. Chi, come lui, fotografa da tanti anni e l'ha fatto con i più
grandi al mondo, che cosa pensate debba mascherare con Photoshop? Nulla,
onestamente, nulla. Questi fotografi la fotografia la fanno prima
dello scatto.
Il file serve a sistemare
le dimensioni dell'immagine da riportare sull'acetato per la stampa a
contatto. Vengono toccate leggermente solo alcune curve, poi si dà
l'avvio al plotter, che una volta caricato a Piezography, o con altri
inchiostri, a carbone, o meno, si stampa il semitrasparente.
Arentz continua così a
lavorare su formati sui 30x50cm, il tutto senza strani meccanismi.
Giancarlo Vaiarelli a fianco del suo bromografo a luce UV.
TG: Ognuno utilizza il
suo bromografo?
GV: Ognuno, chiaramente, ha
la sua attrezzatura, c'è chi utilizza l'UV, e chi il mercurio.
Il fatto di trovarsi in
Arizona, zona in cui c'è poca umidità ed una buona insolazione, fa
propendere Dick Arentz ad un utilizzo della luce naturale.
Anche le platinotipie di
Irving Penn erano esposte al sole, ma non erano fatte a New York, erano
fatte in Centro America, in luoghi come il Cile ed il Messico.
Non è detto che a Milano
non si possa fare un'esposizione al sole, però non mi metto a farla,
perché non ho quella ricchezza di luce che, per esempio, potrei
avere in Aspromonte, o sulle pendici dell'Etna.
TG: Tu comunque confermi
che la stampa a contatto è il miglior modo per ottenere immagini
dettagliate e dai toni profondi?
GV: Non c'è altro
sistema, onestamente, perché così facendo noi andiamo sul massimo
del dettaglio.
TG: Però io nella tua
camera oscura conto: 1,2,3,4,5 ingranditori di grande formato, o anche
di più. Come mai?
GV: Sì, infatti, ce ne
sono di più. Adesso ne ho qua solo 5, uno con testa multigrade,
uno a condensatori, uno
a luce fredda, uno completamente a colori ed uno in preparazione con
la testa digitale... quindi un digi-ingranditore che sto preparando
per me.
Si
tratta di soluzioni da offrire alla clientela, perché adesso c'è
una piccola ripresa di coloro che chiedono stampe ai sali d'argento.
Prima c'era più gente che scattava in pellicola, poi anche costoro
hanno partecipato all'evoluzione del digitale, mentre adesso stanno
un momentino ritornando sui propri passi perché hanno visto e capito
che certe cose possono essere ancora scattate su pellicola,
stampandole su carte baritate, per poi arrivare anche alla
platinotipia.
TG:
A Milano, siete rimasti in pochi a stampare in camera oscura da
pellicola?
GV:
Sì siamo pochi, siamo in fase di sparizione, questa è la realtà,
ma non perché la materia abbia concluso ciò che ha da dire, ma
perché non c'è più chi si vuol dedicare a questo modo un po'
difficile di lavorare.
Tutti,
naturalmente, inseguono il progresso, grazie che c'è questo
progresso, però questo vuol dire perdere determinate capacità e
qualità, sia a livello umano che tecnico.
I
giovani, sì sarebbero anche interessati, ma quando c'è da sporcarsi
le mani, non hanno glia di farlo.
TG: Poiché tu fai stampa d'arte, volevo chiederti, anche un po'
provocatoriamente, se tu ritieni che l'arte debba essere fatta
manualmente, oppure se basta schiacciare un bottone, fare una
fotocopia e dire che è stata realizzata un'opera d'arte?
GV:
L'arte è sempre intesa come qualcosa che passa attraverso il cuore e
la manualità; oggi l'evoluzione ci sta insegnando che è possibile
farla anche solo con un click, ma di questa cosa sarà meglio
riparlarne tra molto tempo, perché per ora, siamo ancora molto
lontani da questa idea.
TG:
La tecnica è importante per realizzare un'opera d'arte?
GV:
Sì la tecnica è importante, ma è molto più importante l'idea. E'
molto importante la partecipazione del proprio io nelle cose che lo
circondano, senza dimenticare nulla, o aggiungere altro. La capacità
tecnica è una componente molto importante che aiuta ad arrivare al
risultato che ci siamo prefissi. Non serve fare troppa esperimenti
senza sapere o capire ciò che si fa, a quel punto, è meglio
lasciare perder, oppure mettersi nelle mani di chi ha le capacità
tecniche.
Oggi
l'offerta di molti kit chimici, io la vedo soprattutto come
un'astuzia per vendere prodotti che difficilmente possono portare a
risultati controllabili e ripetibili e qui sta la differenza nel
riuscire ad azzeccare una stampa, o nel produrre una trentina di
stampe per una mostra fotografica in cui debba essere conservato lo
stesso tono e la stessa atmosfera.
TG:
Arriveremo ad avere un elettrodo collegato al cervello ed a
schiacciare un bottone per poter stampare direttamente su carta le
nostre idee, o i nostri pensieri? Quella sarà ancora arte?
GV:
Tecnicamente in quel momento saremo tutti artisti, praticamente però
non si può sapere, perché questa storia è ancora nel divenire. Ma
fotograficamente, cosa dobbiamo ancora inventare? Abbiamo inventato
tutto, abbiamo visto tutto, siamo andati negli angoli più sperduti
del mondo, quando un giorno l'uomo metterà il piede su Giove, su
Venere, o su Marte, forse allora troveremo una fotografia differente.
Perché è il luogo che la farà differente.
TG:
Oggi però una persona come te è in grado di fare delle cose che
altri non possono fare, questo significa qualcosa? O no?
GV:
Certo che ha un suo significato. Dopo di me, bisognerà vedere in
quanti riusciranno a tenere in vita questa pratica, secondo me
dipende dalla volontà di fare qualcosa, anziché di distruggere.
Alcune tecniche si sono perse nel corso degli anni, questo dipende
dall'uomo e da come noi concepiamo la società in cui viviamo. Se si
pensa che una cosa è inutile, va bene, ma spesso e volentieri le
decisioni vengono prese da persone che nulla hanno a che vedere con
questi metodi di lavoro e d'espressione.
TG:
Tu mi dicevi che scegliesti la tecnica del platino-palladio per una
questione di semplicità, è così? E in che cosa è semplice? Ed è
ancora valida anche dopo 150 anni?
GV:
Questa tecnica è valida e lo sarà ancora, anche tra altri 150 anni,
non c'è da stravolgere niente, da cambiare qualcosa, o da
eliminarla. Fino a quando noi potremo usare del platino e del
palladio potremo a proseguire a lavorare in questo modo; quello che
invece mi dà fastidio è quando questo materiale va in mano a
persone che ne fanno un uso non esattamente corretto.
Non
dimentichiamo che questi metalli preziosi, oltre che in gioielleria,
stanno dando un grosso apporto anche alla ricerca contro il cancro,
cosa che rende questi metalli ancora più nobili.
TG:
Ritieni che questo fatto avrà conseguenze negative sui costi dei
materiali?
GV:
I metodi d'estrazione e raffinazione per usi scientifici hanno costi
diversi da quelli per usi fotografici, perciò anche l'utilizzatore
dovrà sostenere costi diversi.
TG:
Tu hai intenzione di continuare con questo lavoro?
GV:
Io non ho mai pensato d'andare in pensione, almeno, nei confronti
della fotografia non ho mai pensato di smettere. Finché avrò la
capacità e la salute per stare in piedi a fare quello che faccio:
non è un lavoro per il quale puoi dire adesso stacco, timbro il
cartellino e chi s'è visto s'è visto. In questo lavoro sei portato
a pensare a quello che hai fatto 24 ore su 24 e non c'è un giorno,
domenica, sabato, o altro in cui tu puoi pensare di liberarti dai
tuoi pensieri. Magari puoi fare una passeggiata, non stai in camera
oscura, né in camera chiara, ma stai sempre lì e pensi e pensi ed
hai comunque sempre da imparare, anche se hai tanti d'anni
d'esperienza sulle spalle. Quella carta aveva quel difetto, avrei
potuto usarla in questo modo... Così si potrebbe migliorare un certo
aspetto; oppure: quella formulazione andava un pochino più
raffinata... Sono tanti i pensieri che hai costantemente in testa.
Oppure:
quella mistura non era proprio perfetta per quel tipo di negativo...
Domani, o dopodomani ci riproverò modificandola leggermente. Ecco, è
così, ogni giorno hai da pensare e decidere qualcosa; non ci sono
orari, queste idee ti arrivano così, in qualsiasi momento.
TG:
Hai provato altre tecniche tradizionali, prima d'arrivare al
palladio?
GV:
No, ho fatto qualcosa anche col bromolio, ma anche per motivi
d'ecologia e di pulizia, ho scelto il platino.
TG:
Grazie Giancarlo.
GV:
Grazie a te.
Chi volesse contattare Giancarlo Vaiarelli può farlo alla seguente email: platinoprints@gmail.com
Giancarlo Vaiarelli, 58 anni, Stampatore Fine Art, esperto di stampa al Platino-Palladio.
Tutti i diritti riservati. Per riprodurre testo o immagini contattare Tony Graffio
Tutti i diritti riservati. Per riprodurre testo o immagini contattare Tony Graffio
Chi volesse leggere l'intervista in lingua spagnola la può trovare in questa pagina di ORPHO
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