lunedì 28 marzo 2016

Le professioni del cinema e della TV: il montatore

Particolare di una moviola bipasso Intercine 16mm e 35mm

Il racconto di Giorgio Bertone sulla registrazione video magnetica è piaciuto moltissimo al pubblico di “Frammenti di Cultura”; io che avevo già intenzione di occuparmi delle varie figure professionali del cinema, avevo iniziato a parlare di questi argomenti dall'intervista che avevo fatto ad Emanuele Bonapace, un tecnico che si dedica all'acquisizione ed alla gestione dei file digitali nelle moderne produzioni di cinematografia digitale. Volevo capire se era vero o no che i dati relativi alla registrazione magnetica di vecchi programmi televisivi, trascrizioni di filmati in 8mm, 16mm o 35mm su nastro magnetico, o su file digitale e le moderne riprese ad alta, o altissima definizione, in futuro saranno a rischio di “evaporazione” dai supporti usati, oppure se si può fare qualcosa per tutelare il patrimonio storico, culturale ed artistico del lavoro prodotto da fotografia, cinema e televisione.
Visitando la ex-PlayVideo di Felice Quaquarella ed il reparto RVM della Rai di Milano ho capito che la situazione non è poi così drammatica come si potrebbe pensare in un primo momento e che affidandosi a professionisti di lungo corso di questo settore (spesso già oltre i limiti della carriera lavorativa) si può perfino pensare di riuscire a recuperare nastri magnetici che sembrerebbero inutilizzabili. Bisogna però ricorrere a pulizie manuali con prodotti chimici speciali, ricerca di registratori particolarmente adatti allo scopo, conoscenze tecniche ormai più che desuete ed ad altre soluzioni conosciute solamente da chi da tanti anni si occupa di queste problematiche, segreti che tra l'altro non sempre è facile trovare chi è disponibile a divulgare (specie se ha ancora in corso un'attività commerciale).
La filosofia dei tecnici delle generazioni più giovani sembra essere molto più pragmatica, non hanno tanto tempo da perdere, non sono intrisi di sentimentalismi verso cose di cui raramente hanno sentito parlare e spesso si affidano in modo un po' troppo acritico a quanto gli viene detto dai rappresentanti di marchi di apparecchiature tecniche che hanno più interesse a vendere il nuovo che a rigenerare il vecchio. Spesso, si sente dire che una certa cosa non si può più fare, o che bisogna perennemente restare aggiornati passando da ogni stadio evolutivo, con il rischio reale di perdere immagini e documentazioni irripetibili.
Ritenendo i tecnici ed i professionisti della Rai più affidabili dei tecnici che per forza ti offrono un servizio a pagamento, o che comunque ti vogliono vendere qualcosa, e comunque il loro lavoro è sotto gli occhi di tutti, esperti e non. Sono tornato ad intervistare un dipendente della Rai di Milano per capire qual'è il ruolo del montatore cinematografico, in che cosa consiste questo lavoro e che consigli si possano dare ad un giovane che intende intraprendere questa carriera, non soltanto per migliorare alcune soluzioni teoriche o pratiche, ma anche per trasmettere a queste persone un'idea di continuità storica e di appartenenza professionale con ciò che avevano fatto coloro che li hanno preceduti. TG

Moviola Intercine bipasso

Tony Graffio intervista Walter Bellagente, l'ultimo montatore cinematografico della Rai di Milano

Tony Graffio: Ciao Walter, sono venuto qua da te nella tua saletta di montaggio per parlarti e chiederti alcune cose riguardanti il tuo lavoro e la tua lunga carriera, poiché mi hanno detto che tu sei l'ultimo montatore, qui alla Rai di Milano, che è partito dalla pellicola per poi continuare il tuo lavoro con le più recenti tecnologie elettroniche. Ti anticipo che ho molte cose da chiederti.

Walter Bellagente: Ciao Tony Graffio, ti hanno informato bene, sono un po' l'ultimo dei dinosauri, chiedimi pure cio’ che vuoi.

TG: Intanto volevo sapere come ti è capitato di fare questo lavoro, in genere non succede per caso, bisogna avere un bel po' di passione. E' capitato così anche a te?

WB: Diciamo che fin da ragazzo ho avuto la passione per il cinema, all'inizio ovviamente come spettatore, poi come appassionato che già ai tempi delle scuole superiori ha iniziato a bazzicare il mondo del cinema a Milano che non è il cinema vero. Per carità, a Milano si sono sempre fatti soprattutto i documentari industriali ed i cosiddetti “caroselli”, la pubblicità, mentre la cinematografia più narrativa si fa a Roma.

TG: Tu sei nato a Milano?

WB: Io sono nato a Milano nel 1956 ed ho sempre vissuto in questa città. Non avevo nessuna voglia d'andare a Roma, per cui sono rimasto qua. Ho frequentato i vari studi dove si svolgeva attività cinematografica, lavorando all'inizio, part-time perché all'epoca studiavo ancora...

TG: Tipo la Gamma Film?

WB: Erano altri studi più piccoli che preferisco non citare, comunque ho fatto varie cose, ho iniziato facendo l'aiuto-assistente operatore, poi ho fatto l'assistente operatore e nei momenti morti in cui non c'era da fare delle riprese negli stessi studi c'erano anche le sale di montaggio con le moviole. Ho iniziato a vedere come funzionavano le moviole guardando lavorare i montatori, anche perché il mestiere del montatore è un mestiere che si ruba, esattamente come si ruba il mestiere del sarto e tutti questi mestieri fondamentalmente artigianali. Sono andato avanti facendo questi lavoretti da free-lance fino a che nel 1979, con l'avvento della terza rete, ho saputo che in Rai c'erano dei concorsi per selezionare il personale, perché in Rai fino ad una ventina d'anni fa si entrava solo per concorso. Io ho partecipato a quel concorso e con soddisfazione sono entrato come montatore cinematografico-televisivo. All'epoca esisteva solo quello come montaggio in Rai, parliamo di pellicola, naturalmente. Quando sono arrivato io il reparto RVM in Rai esisteva già, ma era proprio agli albori e comunque RVM e montaggio cinematografico erano due cose diverse. La selezione che ho fatto io non era una selezione attitudinale, ma era una selezione professionale, ciò vuol dire che la selezione era abbastanza severa ed era a sbarramento, se non passavi una prova non potevi accedere a quella successiva. Il primo esame prevedeva una prova scritta, e lì c'è stata la prima scrematura, dopo di che c'era un esame orale ed alla fine, da una quarantina dell'inizio, siamo rimasti in sei ad affrontare l'esame pratico, andando in moviola a montare un pezzo. Mi ricordo ancora che era un pezzo girato ad arte con degli errori tipici che possono capitare nel cinema e che un montatore capace deve subio riconoscere e correggere.

TG: Tipo scavalcamenti di campo?

WB: Sì, scavalcamenti di campo e piccoli trucchetti che potrebbero trarre in inganno chi non è del mestiere.

TG: Era un girato che andava rimontato?

WB: No, era un girato di circa 600 metri di pellicola dal quale bisognava ricavare un mini-sceneggiato. La storia era semplicissima: un ragazzo ed una ragazza andavano in gita sul fiume con la macchina, poi i due litigavano e lei se ne andava. Tutto qui. Però era cinema.

Nuclei colorati per pellicole e perforati magnetici 16mm

TG: In 16mm?

WB: In 16mm, sì, esattamente. Io ho fatto bene il mio montaggio, ho passato la selezione e da lì mi hanno chiamato a lavorare nell'ottobre del 1979. Il primo giorno mi hanno fatto fare un giro dell'azienda per farmi capire dov'ero e farmi conoscere i miei capi ed i miei colleghi, ma già dal secondo giorno io ero operativo ed ho montato un pezzo che è andato in onda. Questo è quello che è capitato a me, ma è stato così anche per i vari operatori che sono entrati in Rai fino a qualche tempo fa.

TG: Sei stato contento di lavorare per la Rai? Hai trovato delle differenze nel modo di lavorare cui eri abituato prima? Come t'è sembrata questa azienda?

WB: Beh, sì, chiaramente sono stato soddisfatto di lavorare per la Rai anche perché questo significava avere un posto di lavoro sicuro, ma al di là di questo, ho trovato fin da subito la possibilità di continuare a lavorare in un campo che mi interessava e di fare cose anche belle. Io sono entrato come montatore delle reti televisive, non del telegiornale, perché questa è una divisione aziendale. La categoria è la stessa, ma siamo divisi operativamente in modo che c'è chi segue la produzione televisiva e chi lavora per le news. Può capitare che durante il periodo estivo ci chiedano di sostituire qualche collega dell'altro reparto, oppure di sostuire un collega malato, ma normalmente ci occupiamo solo dei lavori che riguardano il nostro reparto.

TG: Operativamente ci sono differenze? Chiaramente, per il montaggio delle news bisognerà lavorare in tempi più stretti, mentre per i lavori delle reti si curerà un po' di più la qualità del prodotto finale, è così?

WB: Dipende da quello che tu fai, perché anche per le reti si montano le news, io ho lavorato per 20 anni con un signore che si chiamava Enzo Biagi, quindi di news penso di averne fatte anch'io, ma limitiamoci al periodo della pellicola, perché se poi parliamo anche dell'RVM complichiamo un po' il discorso. In effetti i veri lavori per le news li ho fatti con le macchine RVM. Effettivamente, quando lavoravo con la pellicola non facevo le news e coloro che montavano i pezzi del telegiornale avevano problemi di tempi stretti perché allora la pellicola prima andava sviluppata e si lavorava con l'invertibile. Ricordo che qui a Milano avevamo un laboratorio di sviluppo e stampa interno che era tra i migliori al mondo, se non forse il migliore, in quanto rispettava alla perfezione le curve sensitometriche che ci inviava la Kodak da Rochester e non esitava a sostituire i bagni di sviluppo prima che si esaurissero. Con l'invertibile (usato per i TG) bisognava fare molta attenzione a non rovinarlo graffiandolo o in altro modo, perché era una pellicola unica ed insostituibile. Non era una copia, come capitava per le lavorazioni degli sceneggiati e dei documentari. Forse adesso chi non ha esperienza di montaggio in pellicola si dimentica che c'è un contatto fisico con questo supporto. La pellicola bisogna prenderla in mano per lavorarla, per questo si utilizzava una copia di lavorazione e poi alla fine si ristampava un'altra copia definitiva. Lavorando in invertibile, cosa che capitava spesso, bisognava fare la massima attenzione nel maneggiare la pellicola esattamente come si fa con i negativi fotografici. Per questo si usano i guanti bianchi di cotone e tutto il resto.

TG: Alla tua selezione, in quanti siete risultati idonei per fare questo mestiere?

WB: Soltanto in due.

Quel che resta delle moviole in dotazione alla Rai di Milano si trova in una stanza attigua a dove fino a 30 anni fa si trovava il laboratorio cinematografico della Rai di Milano. Sembra che nuove moviole dovranno essere acquistate, in previsione che il Centro di Produzione di Milano si doti di un telecinema 4K per riversare gran parte del materiale di repertorio su pellicola che ancora non è stato digitalizzato.

TG: Come montatore cinematografico avrai avuto un assistente, è così?

WB: Sì, avevo l'assistente, anche se io devo dire non l'ho mai utilizzata troppo. All'epoca ero abbastanza giovane, per quanto riguarda i mondo della pellicola ed ero abituato a lavorare abbastanza in autonomia. Certo, l'assistente era molto utile quando si facevano lavori complessi. Quando montavo i grandi documentari di Enzo Biagi che partivano con materiale di repertorio del 1943 e dintorni, parliamo di 10 puntate di un'ora ciascuna si aveva a che fare con tanto materiale e tante interviste, in quei casi l'assistente che aiuta a classificare il materiale, a tenerlo in ordine ed ad aiutare la mia memoria per poi pescare il pezzo giusto quando serve, è indispensabile.

TG: L'assistente che cosa faceva esattamente? Metteva da parte i rotolini di pellicola e te li passava quando servivano?

WB: Il montaggio cinematografico era ed è ancora un lavoro manuale, anche se penso che non venga più fatto in moviola da nessuno perché poi montano tutti in Avid, Final Cut o Da Vinci, anche se girano in pellicola. Il lavoro consisteva nel mettere insieme una parte visiva ad una parte audio, una pellicola e un nastro perforato magnetico, quindi audio e video viaggiavano separatamente. La prima cosa che doveva fare l'assistente quando aveva il materiale era mettere a ciak, o in sincrono l'audio ed il video prendendo i fotogrammi sui quali si vedevano il famoso ciak, se c'era, altrimenti bisognava andare a occhio, cosa a cui eravamo abbastanza allenati, sia gli assistenti che noi montatori. Una volta che si era fatta questa operazione lo si visionava insieme al regista e coinciavo, a quel punto, a selezionare le varie inquadrature che mi potevano servire. Fisicamente, si estraeva il rotolino di pellicola dell'inquadratura da punto a punto, la si avvolgeva e la si metteva su un carrello numerandolo con la matita dermografica. Il compito dell'assistente era quello di ricordarsi dove era stato messo il rotolino nello scaffale. Potremmo dire che l'assistente era un po' una specie di bibliotecario. Man mano che si lavorava si recuperavano le scene e le si montavano in sequenza e poi si decideva come effettuare il montaggio.

Un banco di ribobinamento usato per la pulizia delle pellicole dalle cosiddette "passafilm"

TG: Sentivo anche parlare di “passafilm”. Chi erano le passafilm?

WB: La passafilm non è nient'altro che una dizione volgare per l'assistente al montaggio. Coloro che non facevano assistenza al montaggio, oppure, mi ricordo che da noi c'erano un paio di signore che facevano solo quello, verificavano le giunte. Prima abbiamo parlato dell'invertibile, la pellicola si giuntava con la “Catozzo” che era una pressa italiana che utilizzava uno speciale nastro adesivo molto tasparente e di ottima qualità per attaccare due spezzoni di film. Tagliava e contemporaneamente perforava lo scotch. Quando si lavorava, ovviamente si faceva la giunta da un lato solo della pellicola, mentre dopo un assistente libero dal lavoro o della passafilm ripassava tutte le giunte e faceva una doppia giunta anche sull'altro lato della pellicola, in modo da rinforzare la pellicola, prima di mandarla al telecinema. L'altro lavoro tipico delle passafilm era quello di passare col velluto morbido imbevuto di alcool isopropilico per togliere i pelucchi e la polvere e pulire la pellicola.

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TG: Fino a che anno hai usato la moviola?

WB: Fintanto che ci sono state le moviole, qui in Rai, io le ho usate.

Intercine

TG: Voi montatori avevate voce in capitolo per dire questo lavoro è meglio girarlo in pellicola?

WB: No, questa è stata una scelta aziendale. La Rai ha scelto di rinnovare l'attrezzatura ed abbandonare la pellicola. Lo dico con rimpianto, perché la pellicola ha occupato un lungo periodo della mia vita lavorativa e poi perché la pellicola è il cinema. Capisco perfettamente le esigenze dell'Azienda di sveltire i tempi e adeguare le lavorazioni alle tecnologie più moderne. Il problema è che quando siamo passati dalla pellicola all'elettronico non c'erano ancora i sistemi di montaggio di adesso, non c'era l'Avid e si montava con un sistema analogico da Beta a Beta o addirittura da U-Matic a U-Matic o da BVU a BVU, o Pollice-Pollice. Con la centralina di montaggio, o addirittura da macchina a macchina, cosa che forse può capitare di fare aancora adesso al telegiornale. Cosa che ho fatto anch'io per tanti anni. Questo è un sistema di montaggio poco evoluto che prevede di montare un'inquadratura dopo l'altra in modo lineare nella sequenza in cui il pubblico dopo le vedrà. Se il montatore dovesse cambiare idea e volesse magari soltanto accorciare o allungaure la durata di un'inquadratura risulta necessario rifare tutto il lavoro per fare una piccola modifica. Altrimenti bisogna duplicare tutto, ma il nastro magnetico che all'epoca non era digitale, aveva una perdita ingente di qualità ogni volta che si faceva una copia.

TG: Quanti passaggi si potevano fare in tutta la lavorazione e quanto si perdeva in ordine di qualità?

WB: Si potevano fare solo 3 passaggi, altrimenti si perdeva troppo in qualità. Si arrivava a perdere anche il 20% ad ogni passaggio. Quando siamo passati dalla pellicola all'analogico, per noi montatori cinematografici che comunque abbiamo fatto un corso d'aggiornamento per imparare ad usare le macchine elettroniche, è stato come tornare indietro ad un modo di montare più arretrato e meno raffinato. Oltre a questo c'erano altri precisi standard da rispettare: per esempio le barre EBU non sono lì per bellezza. All'epoca, mi ricordo, cosa che non si fa più, ogni saletta aveva il suo oscilloscopio vectorscopio per cui si faceva il controllo della qualità delle barre con un sistema di barre campione. Con Avid non è più così, con i sistemi di montaggio digitali, a livello di montaggio, non ha quasi più senso effettuare queste operazioni. Perché con i computer io entro con il segnale in 1:1 ed esco in 1.1, sì, c‘è una conversione mpeg, ma è una conversione di qualità talmente alta che non c'è più differenza. Mentre col nastro, ad ogni riversamento si perdeva tantissima qualità. Tieni presente che allora si lavorava spesse volte in composito, non in component, e nemmeno separando i tre segnali.

TG: Tornando alla pellicola, hai lavorato anche in 35mm?

WB: Lavorato no, l'ho utilizzato diverse volte anche perché quando arrivava materiale un po' particolare come sigle di trasmissioni prodotte esternamente arrivavano in 35mm, allora si controllavano, si visionavano, eccetera. Molto materiale di repertorio arrivava in 35mm. Con Biagi ci arrivò una serie di filmati dalla ex-Unione Sovietica dove c'erano film e documentari sulla rivoluzione d'ottobre del 1917, naturalmente erano tutti in 35mm ed io li ho dovuti vedere tutti per poi decidere che pezzi utilizzare e mandare a mettere i fili, come si diceva allora, per riversare il tutto in 16mm.

Proiezione per pellicole 35mm o 16mm

TG: Avevate moviole da 35mm?

WB: Le moviole erano tutte bipasso 16mm e 35mm leggevano entrambi i formati. Molti colleghi hanno montato in 35mm per fare determinati lavori. I Promessi Sposi, per citare la produzione più grossa della Rai di Milano sono stati montati dai colleghi Gianni Lari e Gennaro Oliveti in 35 mm.

TG: Tu hai lavorato anche con loro?

WB: No, beh erano colleghi. Eravamo un bel gruppo, ma il mestiere del montatore, come ho detto prima, non si insegna, si ruba. Se uno come me all'epoca, era giovane, volenteroso e interessato al lavoro, spesso, se capitava d'avere delle ore libere andava a vedere che cosa facevano gli altri. E molte volte questo diventava interessante.

TG: Ti riferisci a come fare gli stacchi, il montaggio, l'audio...

WB: Sia per la tecnica, che per il modo di trovare delle soluzioni di montaggio che ti permettano di uscire da delle situazioni un po' difficili. Chiaro che molto del mio lavoro, fatte salve le basi immutabili della grammatica cinematografica che poi si possono stravolgere per finalità artistiche, sta nel guardarsi molto attorno e vedere che cosa fanno gli altri. Io continuo a guardare la televisione e ad andare al cinema, non solo per piacere mio di spettatore, ma anche per approfondimento professionale.

TG: Ci sono stati dei registi qua in Rai che ti hanno insegnato qualcosa? O che ricordi con piacere?

WB: Ho lavorato con vari registi, ne ricordo alcuni con affetto e con piacere perché mi hanno insegnato molto, penso a Luciano Arancio che era uno dei registi fissi di Biagi con cui ho lavorato molto. Arancio, come me era un appassionato di lirica, per cui abbiamo fatto molti lavori anche sulle prove di Riccardo Muti a La Scala.

TG: Un lavoro che ti ha dato particolare soddisfazione?

WB: In elettronico, il lavoro che più mi ha dato soddisfazione è stato: “Il Fatto” di Enzo Biagi, in quel caso utilizzavo già le prime macchine Avid, eravamo però già nella seconda metà degli anni '90. Era un approfondimento delle news che prevedeva una trasmissione di 5 minuti ogni giorno, in onda dal lunedì al venerdì dopo il TG serale della rete uno. E' stato un bell'impegno anche dal punto di vista dell'adrenalina perché molte volte si preparava la trasmissione su un argomento per tutto il giorno, ma poi poteva capitare che un fatto improvviso di cronaca ci facesse cambiare completamente programma e bisognava rifare tutto all'ultimo momento. Io ho seguito tutte le edizioni con la stima, la collaborazione e l'amicizia di Loris Mazzetti, altro personaggio che io ricordo con piacere.

Varie bobine di pellicola 16mm e nastri perforati magnetici

TG: Invece in pellicola che cosa ti ricordi con piacere?

WB: Era tutta una serie di lavori che riguardavano Riccardo Muti in prova. In quel caso si univa il piacere di vedere come veniva costruite le prove e messa in scena un'opera a La Scala, ed allo stesso tempo c'era il piacere di fare una sintesi. Erano dei documentari.

Porte, finestre, chiavistelli e tapparelle che servivano a riprodurre i rumori necessari a sonorizzare sceneggiati tv e radiofonici, o altri tipi di programmi.

TG: Tu che genere televisivo privilegi? A che lavoro piace lavorare: documentari, sceneggiati, informazione, musica, varietà?

WB: Io ho fatto un po' di tutto, ma onestamente di sceneggiati ne ho fatti pochi. Ho sempre lavorato di più per i documentari. Da un po' di tempo a questa parte privilegio le opere e le commedie, lavori di tipo teatrale.

TG: Può esserci un montatore che è più adatto ad un lavoro di tipo documentaristico piuttosto che musicale? Piuttosto che narrativo?

WB: Assolutamente sì, il montaggio scaturisce dalla collaborazione con un regista nel cercare di mettere in pratica le sue idee. Così dovrebbe essere, poi in televisione non sempre è così. Nella cinematografia classica il montatore dà forma alle idee del regista che ha seduto al suo fianco e per far questo ci deve essere unità d'intenti. In più il montatore dovrebbe essere appassionato da quello che fa. Se l'argomento non lo interessa o non sta nelle sue corde la cosa diventa difficile ed il lavoro diventa semplicemente mestiere, ma non dà luogo a quel qualcosa di più che può farlo diventare, diciamo la parola grossa, arte. Nel mio caso specifico, non essendo io un appassionato di musica rock o di musica moderna, i videoclip li lascio fare volentieri ai montatori più giovani. Questo non vuol dire che io non possa fare quel tipo di lavori, ma secondo me è anche giusto che ognuno di noi, nei limiti della disponibilità, riesca a lavorare per i soggetti a cui è più adatto.

TG: In Rai c'è la possibilità di proporsi o di scegliere per che progetto lavorare?

WB: Diciamo che a Milano, noi delle reti, siamo un gruppo di più di una dozzina di montatori con ognuno le sue qualità, e ritengo che sia i registi interni che hanno voce in capitolo durante le riunioni di produzione di decidere a chi affidare un lavoro, sia i nostri responsabili sappiano benissimo ognuno di noi per cosa è portato. Poiché siamo tutti qui per dare il nostro meglio, se io do il meglio in una cosa, non vedo perché dovrei farne un'altra che un collega può fare meglio di me...

Dettaglio di porta scorrevole

TG: Senti, e il fatto di lavorare, magari da soli, in una stanzetta per diverse ore di seguito, o talvolta accompagnato da un regista, ma penso molto più spesso da soli, è una cosa che può dar fastidio o che pesa? E la ripetitività? Io ho sempre in mente che quando si fa un montaggio bisogna vedere tutto il girato, lavorarci su poi rivederlo un'infinità di volte e risentirlo, questo fa sì che ci vogliano delle doti particolari per fare questo lavoro? Ci vuole molta pazienza?

WB: Be sì, ci vuole pazienza, ci vuole occhio che poi può venire anche con l'allenamento. Io lavoro da solo perché posso lavorare in autonomia, fatto salvo che dopo c'è sempre una visione finale insieme ad un regista, ad un assistente alla regia che sono figure fondamentali del montaggio anche per quello che dicevi tu, perché funziona esattamente come in un libro. Tu vuoi scrivere un libro, lo rileggi 20 volte e non ti accorgi della parola sbagliata perché tu rileggi sempre la stessa cosa. L'occhio fresco che arriva dopo che tu magari hai fatto 3 giorni di montaggio ed hai montato una sequenza, arriva e ti dice che c'è qualcosa che non funziona. Normale, ben venga il regista, o l'assistente.

TG: Tu mi dicevi che tanti anni fa avevi iniziato come assistente operatore e poi ti sei buttato sul montaggio; è successo per una tua predisposizione a quel tipo di lavoro?

WB: Sì, mi piaceva e mi piace tuttora.

TG: Nel passaggio che c'è stato dal lavorare con le moviole alle macchine rvm tu hai trovato difficoltà ad adattarti a questo cambiamento? E i tuoi colleghi più anziani? C'è chi non ce l'ha fatta?

WB: Quell'epoca non è stata un periodo gradevole, nel senso che per i colleghi più anziani di me, adesso in pensione, è stato decisamente uno shock. Alcuni hanno assolutamente rifiutato questa novità, un paio di loro si sono rifiutati di convertirsi a questo ruolo. Io invece ero abbastanza giovane e difatti sono ancora qui come ultimo esemplare dei montatori in pellicola, per quanto riguarda il Centro di Produzione di Milano. Io ero entusiasta ed incuriosito da questi nuovi mezzi per cui forse ho avuto meno difficoltà degli altri ad imparare il funzionamento di questi mezzi e nell'usarli, pur continuando a fare il mio mestiere.

TG: Il fatto di venire dalla pellicola ti ha poi agevolato nell'utilizzo di Avid e dei sistemi di montaggio non lineare?

WB: Assolutamente sì, perché Avid e gli altri sistemi sono stati pensati da un montatore vero, non da un tecnico. Non voglio essere offensivo nei confronti di nessuno su questo punto, ma Avid funziona tramite un computer esattamente come la moviola e la pellicola. C'è stato un periodo in cui la Rai ha unificato la mansione di montatore tra i tecnici dell RVM ed i montatori cinematografici, in quel momento i tecnici video sapevano operare sulle macchine, ma non avevano le competenze teoriche di montaggio e non conoscevano bene il linguaggio che dovevano utilizzare; mentre noi sapevamo come montare, ma non come utilizzare le macchine. Col tempo, anche alcuni tecnici sono diventati dei bravi montatori.

Dettaglio di un chiavistello utilizzato nel cubo del rumorista

TG: Il montaggio RVM all'inizio poneva dei limiti al linguaggio cinematografico.

WB: Poneva quei limiti che ho spiegato prima, ovvero che tutto andava pensato prima d'effettuare il montaggio, cosa che d'altronde andrebbe fatta anche per un montaggio “vero”, però questa accortezza bisognava averla molto più di adesso, perché ai nostri giorni con Avid si può anche arrivare a metà del montaggio e decidere di cambiare tutto, senza che questo comporti particolari problemi. Mentre con il montaggio analogico, questo voleva dire rifare tutto e perdere tantissimo tempo.

TG: Adesso che la definizione è arrivata a 4K, 5K, 6K, 7K, 8K e chi più ne ha più ne metta. Adesso che anche la latitudine di posa raggiunge gamme impensabili fino ed oltre i 14 stop; insomma adesso che l'immagine elettronica e le possibilità di montaggio sembrano non aver fine, secondo te, il mondo del cinema e della televisione sono più vicini? L'immagine elettronica, chiamiamola così, è diventata una cosa sola?

Un altro tipo di chiavistello montato sulle porte del cubo del rumorista "parcheggiato" al quarto piano del palazzo Rai di Corso Sempione che lo scorso anno è stato aperto al pubblico durante le giornate del FAI

WB: Tecnicamente si somigliano sempre di più, è vero, tutto è girato con i mezzi elettronici e dalla fine del 2014 anche tutte le sale cinematografiche italiane dovrebbero essere attrezzate con i videoproiettori elettronici, anche perché c'è una legge che esprime questo obbligo. Come conseguenza, quello che vediamo al cinema non è più un film. Come vedi, una risposta alla tua domanda siamo riusciti a darcela. Rimane però molto diverso il l'approccio, il linguaggio e ciò che si fa in televisione è diverso da quello che si fa nel cinema. Al cinema si raccontano le storie, in televisione, almeno per quello che riguarda noi, si fanno soprattutto i talk-show adesso.

TG: Sì, e’ verò però esistono delle serie americane nate apposta per la televisione che fanno impallidire anche il cinema.

WB: Beh, io non lavoro ad Hollywood, posso dirti quello che facciamo noi qua. Anche le opere per ora non le facciamo in 4K, ma in alta definizione. Ritengo che sia diverso l'approccio del pensare un prodotto, poi tecnicamente arriveremo a fare anche noi certi lavori in 4K, non è quello il problema. Il fatto di lavorare in digitale ha portato grossi vantaggi sia a livello produttivo, ma soprattutto nella possibilità di non avere un deterioramento nella qualità dell'immagine che è qualcosa d'estremamente importante.

TG: Per quello che riguarda la conservazione del prodotto finito, era meglio la pellicola? O si riuscirà a conservare anche il file digitale? O la cassetta? E che durata pensi che possano avere questi tipi di supporti?

WB: Mi stai facendo una bella domanda (ride). E chi lo sa? L'evoluzione tecnologica è stata così veloce che non abbiamo assolutamente avuto il tempo di valutare e di testare quella che è la resistenza e la durata nel tempo di certi supporti. Tanto è vero, per quanto ne so, che adesso ci ritroviamo con nastri che ci riproducono un tipo d'immagine talmente scadente, per gli standard cui siamo abituati adesso, da risultare terribile alla visione. La pellicola ha più di 100 anni, sappiamo come funziona, sappiamo come conservarla, sappiamo come restaurarla, non ci pone problemi. Il vantaggio del digitale è che tutta l'informazione numerica si può riversare senza avere perdita di qualità, basta cambiare il tipo di supporto e passare periodicamente da un hard-disk ad un altro, o ad una memoria solida, o a quello che ci sarà in futuro, resterà sempre una fila di 1 e di 0. Mettila come vuoi, ma una volta che sono registrati e sappiamo che sono registrati anche in modo ridondante, non dovrebbero porsi nemmeno qui grossi problemi.

TG: Spiegami meglio la questione delle informazioni ridondanti per favore.

WB: I sistemi di registrazione digitale immagazzinano più volte la stessa informazione, cosa che vale anche per i normali CD audio, questo significa che poi quando il sistema di lettura va a recuperare i dati, anche se qualche informazione subisce dei danni il sistema è ugualmente capace di ricostruire la traccia registrata. E' come se la registrazione fosse fatta 5 volte in maniera sfalsata per cui diventa difficile perdere il contenuto della registrazione in quanto è possibile ricampionare la traccia anche in assenza di qualche dato numerico. Questa soluzione è stata appositamente studiata in fase di progettazione, altrimenti basterebbe la perdita di un solo dato numerico per sentire un buco nell'audio, o perdere dell'informazione video. Inoltre c'è una correzione di campionamento che tiene conto anche della perdita d'informazioni ed altre cose.

Una tapparella montata sul cubo del rumorista

TG: Abbiamo parlato poco della sonorizzazione, questa lavorazione la facevate voi montatori o un apposito reparto?

WB: Per sonorizzazione intendi il mixaggio?

TG: Aggiungere dei suoni, o degli effetti, pulire delle sporcature audio, aggiungere delle tracce audio e cose così

Cubo rumorista Rai Milano
Un lato di uno dei due cubi da rumorista ancora presenti in Rai a Milano

WB: Allora, il film veniva montato con una serie di colonne audio: la voce, le musiche, facciamo l'esempio del documentario, c'era la voce fuori campo, la voce dei vari intervistati, le varie musiche ed eventuali effetti. Tutte queste colonne audio venivano missate da un reparto apposta che c'è ancora adesso che si chiama sincronizzazione audio.

TG: Mi sembra che siano solo due persone...

WB: Adesso sono solo due persone, prima erano molte di più e si parlava di sincronizzazione perché c'era tutta una serie di macchine che mantenevano il sincrono. Su ognuna si montava una colonna separata, più il video e si provvedeva al missaggio con personale tecnico, cosa che viene fatta tuttora da chi ha un orecchio allenato ad una certa sensibilità. Il lavoro di mixaggio non è un lavoro semplice. Mi ricordo che esistevano delle figure che adesso non esistono più, come il rumorista. Negli sceneggiati, anche radiofonici, era necessario aggiungere degli effetti ricreati dal rumorista che adesso vengono inseriti da dischi di effetti già pronti. Il consulente musicale, diplomato al conservatorio, invece, oltre a seguire i programmi musicali assiste il montatore nella proposta e nella scelta di musiche da inserire nei prodotti audiovisivi che realizziamo qui in Rai.

La porta scorrevole utilizzata negli anni '50, '60 e '70 dai rumoristi della Rai

TG: Quindi non è sempre il regista che sceglie le musiche, ma siete anche voi a proporle?

WB: Sì.

TG: E per quello che riguarda l'audio voi cosa fate esattamente?

WB: La messa in sincrono della registrazione fatta col Nagra che veniva trasferita sul perforato magnetico, alla quale aggiungevamo le musiche, tagliate e sincronizzate...

TG: Facevate una prima colonna di base?

WB: Le colonne venivano tutte preparate in moviola, solo in mixaggio avveniva il filtraggio dal punto di vista sonoro, e lavorate sulle dissolvenze audio in entrata ed in uscita, o nelle dissolvenze incrociate fra una musica e l'altra. Cosa che faccio anche adesso con Avid. Il mixaggio poi livella, calibra e magari aggiungeva la pasta sonora, schiarendo un'intervista, mentre gli effetti venivano montati in moviola. Al rumorista invece si dava il pezzo filmato da proiettare e su questo si registravano i rumori. Il nastro poi tornava da me che rimettevo tutto in sincrono correggendo magari il suono dei passi dei personaggi, in modo che coincidessero alle immagini, stessa cosa per un oggetto che cadeva a terra. Tutto questo era riportato sul perforato magnetico che andava in moviola. A questo proposito posso raccontarti una cosa curiosa che mi ricordo molto bene perché era stata una delle domande trappola che mi fecero alla selezione del 1979. In Rai, per quanto riguarda il sincrono sonoro, ed è un'esclusiva della Rai perché non l'ho mai visto fare da nessuna altra parte, veniva fatto per motivi di risparmio, si utilizzava una pellicola da 35mm tagliata a metà. Siccome il 35mm viaggia ad una velocità 4 volte superiore a quella del 16mm ed ha 4 perforazioni per fotogramma, invece di una, l'utilizzo del 35mm per l'audio permetteva una lavorazione più precisa dell'audio, ecco perché per il sincrono dell'audio, specialmente per quello che riguardava i doppiaggi, in Rai si utilizzava il mezzo 35mm.

TG: E tu non lo sapevi, però.

WB: No, io lo sapevo perché durante l'esame un esaminando, durante la prova orale, è uscito prima di me dalla sala dove si erano riuniti per l'interrogazione dicendo che gli avevano chiesto una cosa assurda sul 35mm perforato magnetico tagliato a metà. Io che avevo ascoltato questo discorso, quando poi è stato il mio turno di rispondere alle domande che la commissione esaminatrice faceva mostrando un mucchietto di campioni di vari tipi di pellicola ho saputo rispondere correttamente. Fu proprio Heron Vitaletti, che tu conoscerai, a prendere uno spezzone di questo tipo di mezzo perforato magnetico da 35mm ed a chiedermi di che cosa si trattasse. Io candidamente risposi correttamente che era il mezzo 35mm che si usava in Rai per il doppiaggio audio, aggiungendo che me l'aveva appena detto il ragazzo l'esaminato prima di me.


Il montatore e la Moviola
Tipica situazione da moviola. Rivista notizie Rai

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sabato 26 marzo 2016

Preferiamo morire piuttosto che arrenderci (Khaled al Asaad)

 Khaled Al Asaad,  Palmyra 1 gennaio 1932 - Palmyra 18 agosto 2016


"Preferiamo morire piuttosto che arrenderci" è una frase tristemente profetica pronunciata dall'uomo che ha nascosto e sottratto alla distruzione alcune opere romaniche che testimoniano la presenza sul territorio siriano di culture che qualcuno vorrebbe negare per propri scopi politici e di disinformazione.



"La religione ed il totalitarismo confidano fortemente sull'ignoranza delle persone in modo da poter infondere in loro false idee che rendano le masse ancor più sottomesse alla volontà dei poteri forti." TG


Domenica 6 marzo 2016 Ivan, Ortica Noodles, Pao e Piger hanno realizzato un mural sul muro esterno della Fabbrica del Vapore, in piazza Cimitero Monumentale, dedicandolo a Khaled al Asaad, l'ex direttore del museo archeologico di Palmyra che continuò ad occuparsi del sito, riconosciuto Patrimonio dell'Umanità nel 1980, proteggendo alcune statue ed opere d'arte fino alla morte. "Talvolta un passo avanti è non indietreggiare" è la frase poetica scritta da Ivan Tresoldi per commemorare il sacrificio di Khaled al Asaad di fronte al fanatismo integralista di chi è disposto a rinunciare non solo alla ragione, ma anche alla verità per i propri fini malefici.
In una società tendenzialmente asettica ed opulenta come quella Occidentale stiamo assistendo da parte di gruppi estremisti che professano fede Islamica ad un forte tentativo d'imporre una cultura della morte per sottomettere tutti i popoli al loro stile di vita.
In un sistema sociale in cui l'idea della morte è quasi un tabù, entrare in contatto con questa realtà ed avere la percezione che c'è chi è disponibile a imporsi straziando corpi umani di persone innocenti per mezzo di bombe, o di spade, è sicuramente un deterrente fortissimo che potrebbe indurre molti, per paura, ad abbracciare la religione di Maometto ed a lasciar liberi di agire i suoi guerrieri.
Per quanto si desideri vivere in pace, bisogna prendere coscienza del fatto che sono le guerre ad aver segnato la storia degli uomini e più che la giustizia degli ideali è l'aggressività e la motivazione dei combattenti sul campo a far conseguire risultati vittoriosi ai leader politici, o religiosi.

giovedì 24 marzo 2016

Quasi tutto su un laboratorio bianco e nero di sviluppo e stampa (Visita al laboratorio De Stefanis)

Laboratorio Fotografico De Stefanis
Tony D'Ambrosio con i suoi strumenti per la mascheratura, nella sua camera oscura a Milano in viale D. Ranzoni 15/a

Tony Graffio: Sono andato a trovare Tony D'Ambrosio, uno stampatore fine-art molto noto a Milano, a lui vorrei chiedere per prima cosa come ha iniziato a dedicarsi alla fotografia e perché ha scelto di fare lo stampatore?

Tony D'Ambrosio: Diciamo che all'inizio è stato un gioco; dove abitavo c'era un fotografo ed io da ragazzo andavo nel suo laboratorio per dargli una mano, poi da lì, pian, piano ho capito che questa attività m'interessava sempre più, così ho capito che desideravo approfondire questo discorso perché mi sarebbe piaciuto svolgere questo lavoro. All'inizio asciugavo le stampe, oppure uscivo con questo fotografo quando doveva fare delle riprese, io gli caricavo le fotocamere e lo aiutavo in altre cose.

TG: Quanti anni avevi?

TDA: Avevo solo 12 anni.

TG: Dove vivevi?

TDA: A Tradate.

TG: Adesso quanti anni hai? Da dove arrivi? E che studi hai fatto?

TDA: Ho quasi 60 anni, sono nato in provincia di Salerno, quando ero bambino la mia famiglia s'è trasferita a Tradate, in provincia di Varese. Ho fatto degli studi commerciali, sono diplomato in ragioneria e dopo ho seguito un corso di formazione di 3 anni all'ex-Umanitaria in via Pace, a Milano, che adesso credo si chiami Bauer. Finita la mia formazione, tramite un'insegnante, mi si era prospettata la possibilità d'andare a lavorare presso un fotografo ed io ho accettato. Il fotografo era Gabriele Basilico. Dal 1974 al 1984, io ho fatto l'assistente e lo stampatore presso lo studio di Gabriele Basilico. All'inizio facevo quasi esclusivamente l'assistente, seguendo Gabriele quando usciva a fotografare, poi man mano sono diventato il suo stampatore, io restavo in studio e stampavo le sue fotografie. In quei 10 anni io ho stampato tutti i suoi lavori, da: “Milano, ritratti di fabbriche”, alle documentazioni effettuate per la Datar. Una volta che poi sono venuto a lavorare qui da De Stefanis, ho continuato ad essere il suo stampatore. Ho stampato le fotografie di Beirut e di tutte le altre sue mostre.

TG: Dov'era lo studio di Gabriele Basilico?

TDA: I primi tempi era in piazza del Tricolore, dopo s'è trasferito in via Pergolesi.


Insieme a Gabriele Basilico

TG: Che ricordo hai di Gabriele Basilico?

TDA: Ho un ricordo stupendo (pausa). Era una persona speciale, io l'ho sempre considerato come un fratello maggiore. C'era un rapporto speciale tra di noi, per me la sua morte è stata una grossa perdita.

TG: Avevate una buona intesa? Ti spiegava come dovevano essere i toni delle stampe, oppure ti lasciava abbastanza libero d'interpretare le sue fotografie?

TDA: Io facevo le mie stampe, poi gliele facevo vedere e lui mi diceva: “Questa va bene, questa fammela un po' più contrastata...” e cose così. Lui non è mai entrato in camera oscura a darmi indicazioni. Facevamo una valutazione insieme, una volta stampata un'immagine, ma più che altro era una questione di definire il giusto contrasto di una fotografia.


 Nella camera oscura di Tony D'Ambrosio

Un altro strumento auto-costruito come fanno molti stampatori, questo cartone forato serve per le bruciature

TG: Ti chiedeva delle mascherature particolari?

TDA: Beh, quelle le facevo già. Dovevamo solo metterci d'accordo sui contrasti del bianco e nero: io le vedevo un po' più morbide, lui un po' più contrastate, o vice-versa, ecco questo era tutto.

TG: Basilico ha mai stampato le sue fotografie?

TDA: Sì, all'inizio sì. Anzi, c'è stata un mostra poco tempo fa, alla Galleria Belvedere, di un viaggio che lui fece in Iran nel 1970. Quelle fotografie le ha stampate tutte lui.


Fotografie stampate da Tony D'Ambrosio
Alcune fotografie stampate dal Laboratorio De Stefanis 

TG: Perché hai deciso di unirti al Laboratorio De Stefanis?

TDA: E' saltata fuori la possibilità di venire qui a creare questo laboratorio e sai, quando inizi ad avere 30 anni o poco più, cerchi di trovare qualcosa d'alternativo, anche perché non potevo continuare a fare lo stampatore solo per Gabriele. Mi sarebbe anche piaciuto, io mi trovavo bene lì, però volevo mettere su qualcosa di mio. All'inizio ci avevo anche provato, nel senso che utilizzando la camera oscura di Gabriele svolgevo lavori anche per altri fotografi, ma questa cosa non andava bene perché se lui aveva bisogno ed io avevo altri impegni, le due cose non potevano combaciare.

TG: Gli anni '70 ed '80 sono stati decenni molto buoni per la fotografie e per lavorare in questo settore, vero?

TDA: Sì. Quelli sono stati veramente degli anni eccezionali, quasi fino alla fine degli anni '90. E' stato con l'avvento del digitale che è cambiato il modo di lavorare ed ha ucciso il mercato.

TG: Qui alla De Stefanis avete deciso di non aggiornarvi?

TDA: No, abbiamo anche un plotter della Epson a banda 160 centimetri (largezza del rotolo di carta), stampiamo al massimo delle dimensioni a 9 colori.

TG: Però la gran parte del lavoro la fate ancora in bianco e nero argentico, vero?

TDA: Diciamo di sì, noi cerchiamo comunque di portare avanti la stampa tradizionale.


Progresso Fotografico e Bianco e Nero hanno parlato del Laboratorio De Stefanis in passato, ma Tony Graffio con questa intervista ha dato un taglio completamente diverso al lavoro dello stampatore ed alla sua sensibilità artistica.

TG: Fammi capire, voi mi avete mostrato una rivista che aveva pubblicato un servizio su di voi 17 anni fa e da allora vi siete liberati soltanto di 3 ingranditori perché adesso qui lavora meno personale rispetto ad una volta, però vi è rimasto l'ingranditore per l'8X10, quello per il 5X7, quello per il 4X5 e tutto il resto, perché?

TDA: Perché la nostra filosofia rimane quella di continuare a portare avanti la tradizione del bianco e nero classico, anche perché sono due cose completamente diverse, lo sai anche tu, no? Tra una stampa ai sali d'argento ed una stampa al plotter che viene fatta con inchiostri colorati c'è una grossa differenza. Soprattutto sul bianco e nero. Il colore è un'altro discorso. Noi ci proponiamo soprattutto per la stampa del bianco e nero.


Tony D'Ambrosio
Tony D'Ambrosio simula le operazioni che normalmente attua sul gigantesco Durst 20X25

TG: Qual'è la vostra dotazione di laboratorio e di camera oscura?

TDA: Abbiamo 1 ingranditore Durst per il 20X25 con testa Multigrade, 3 ingranditori Durst 138 anche loro con testa Multigrade, un IFF che stampa fino al 6X6 ed un altro ingraditore 6X6.

TG: Qual'è quello che usate più di frequente?

TDA: Io nella mia camera oscura ho un 138 S col quale faccio tutto, dal 24X36 fino al 13X18.

TG: Siete rimasti solo in due stampatori, giusto?

TDA: Sì, siamo rimasti in due, più Cristina Gramegna che si occupa del digitale. Massimo Mangione si occupa anche dello sviluppo delle pellicole negative, oltre che a stampare.


Stampe da ritoccare

TG: Che sviluppatrici avete in dotazione?

TDA: Abbiamo una sviluppatrice per negativi a telaio che sviluppa tutto, fino al 20X25. Poi, naturalmente si possono fare anche degli sviluppi manuali nella classica tank, specie se ci sono richieste particolari.

TG: E per le normative anti-inquinamento come vi regolate?

TDA: Recuperiamo tutti i liquidi esausti dentro delle taniche e poi una volta che sono tutte piene passa una ditta specializzata che provvede a smaltire questi prodotti chimici.

TG: Come si chiama questa ditta?

TDA: AV ambiente.

TG: So che molti hanno scelto di rinunciare alla fotografia chimica proprio per le difficoltà ed i costi relativi allo smaltimento dei prodotti chimici, è così?

TDA: Guarda, effettivamente in questi casi la burocrazia la fa da padrona, la tracciabilità è fondamentale, credo che sia la norma Sistri. Certamente, anche quello è un costo perché quando passano per portare via gli scarti si fanno pagare, mica lo fanno gratis...

TG: Immagino. Voi comunque riuscite a fare tutto qui: sviluppo e stampa, solo che prima avevate un altro socio che adesso non c'è più...

TDA: Sì. Purtroppo, Mario De Stefanis che è stato colui che ha fondato e dato il nome a questo laboratorio è deceduto circa 5 anni fa.

TG: Avete deciso insieme a lui di proseguire con la stampa tradizionale?

TDA: Bah sai, io sono nato così, il computer mi affascina, ma il mio modo di lavorare resta legato all'ingranditore.

TG: Io volevo capire se, visto che eravate tre persone con la stessa attività, vi siete riuniti a tavolino per discutere questa cosa e d avete preso una decisione coscientemente in quel senso di comune accordo...

TDA: Sì, abbiamo deciso di continuare col tradizionale perché la pellicola esiste da più di 150 anni, quindi materiale da stampare ce n'è abbastanza, no? Poi, abbiamo pensato di portare avanti anche la stampa digitale, ma senza disfarci delle nostre attrezzature storiche, in modo da abbinare i due discorsi.

TG: Scusa se insisto su questo argomento, ma che cosa vi ha fatto decidere di conservare gli ingranditori? Il fatto che li avevate già? Per evitare di fare troppi investimenti? Continuavate a credere nella pellicola?

TDA: Io so fare lo stampatore tradizionale e volevo continuare a fare quello, quindi ho pensato d'andare avanti per la mia strada. Fino a quando mi danno la possibilità di stampare io stampo, anche perché adesso ho visto che c'è un ritorno all'uso della pellicola.

TG: Insomma, voi tre eravate d'accordo a continuare a stampare come sempre perché i fotografi continuavano a portarvi il lavoro?


Ancora intorno al Durst per l'8X10

TDA: Esatto, perché i nostri clienti continuavano a scattare in pellicola. Gianni Berengo Gardin non ha mai scattato una fotografia digitale in vita sua ed ancora adesso utilizza la pellicola. Anche Gabriele ha sempre scattato con la pellicola e mai in digitale.

TG: Quando tu hai lasciato Gabriele Basilico, lui è diventato vostro cliente?

TDA: Esatto, io sono andato via come stampatore e lui è venuto qui come cliente e sono rimasto il suo stampatore e lui s'è trovato bene come sempre con me. Tutte le sue mostre ho continuato a farle io, come sempre. Compreso le fotografie che vendeva. Al di sopra di certi formati, ho stampato sempre io per lui.

TG: Quali sono gli altri vostri clienti?

TDA: Oltre a Gianni Berengo Gardin, che seguo io, stampo per l'archivio Mulas, per l'archivio Patellani, per l'archivio Donzelli, per Uliano Lucas, per Francesco Cito, Ivo Saglietti e tanti altri.

TG: Voi non avete risentito molto dell'avvento del digitale?

TDA: Beh, quello sì, noi facevamo molta moda, stampavo per Tony Thorimbert, per Aldo Fallai, lavoravamo anche con Giuseppe Pino e Gastel, ma il digitale ha ammazzato completamente il lavoro di quel settore. Col digitale scatti ed invii direttamente il file, non è più come prima che dovevi stampare per forza. Ti faccio un esempio: quando c'erano le sfilate noi ci occupavamo delle press-release e dovevamo realizzare 15000-20000 stampe 18X24 a ciclo continuo, lavorando giorno e notte. Noi, quando c'erano le sfilate, avevamo questi riferimenti e sapevamo che lavoravamo per questo giro di clienti. Se vuoi, la nostra fortuna è stata quella di non specializzarci solo nella moda, ma di seguirlo come uno dei nostri settori d'interesse. Sicuramente abbiamo risentito del crollo della moda, ma abbiamo continuare ad andare avanti.

TG: In che anno c'è stato questo crollo?

TDA: Intorno al 2002-2003.

TG: Che cos'è per te una stampa fotografica? Lo stampatore è un autore?

TDA: Sì, io cerco sempre di fare delle stampe d'autore. Quando m'arriva un negativo di Gianni Berengo Gardin, certo lo scatto è suo, però mi piace pensare che la stampa sia una mia immagine, quindi io cerco d'interpretare ciò che mi trovo davanti e di dare il massimo delle mie capacità.

TG: Normalmente che cosa succede con questi grandi fotografi? Vengono da te e ti danno delle indicazioni? O ti lasciano fare?

TDA: All'inizio sì, poi si crea un rapporto. Gianni Berengo Gardin se proprio ha delle esigenze particolari mi chiede di fargli il cielo più scuro, o cose di questo tipo, dei tagli... Queste sono le richieste, però per quanto riguarda i contrasti eccetera, dopo che lavori da tanti anni con qualcuno conosci i suoi gusti. Cosa che è capitata anche con Gabriele. Quando abbiamo fatto “ Milano, ritratti di fabbriche”, che è stato il suo primo grosso lavoro,
lui mi ha dato delle indicazioni precise perché le voleva in un certo modo con un certo contrasto.

TG: Secondo te, qual'è stata la fotografia o il lavoro più bello di Gabriele?

TDA: Beh, quello per la Datar. Perché da lì poi è partita la sua fama, a livello internazionale. E poi Beirut.

TG: A me è piaciuto molto “Milano, ritratti di fabbriche”, ma lo trovavo molto sgranato. Te l'ha chiesto lui così?

TDA: No, quello era il tipo di negativo, erano fotografie scattate tutte con una Nikon in 24X36 che montava una Ilford FP4 esposta, credo, a 80 Iso. La grana poi è l'anima della fotografia.

TG: A te la grana piace?

TDA: Sì, a me la grana piace. Non dev'essere esagerata, ma è là. Una fotografia senza grana non è fotografia.

TG: Quindi il digitale non è fotografia? (Rido)

TDA: No, è digitale. (Ridiamo entrambi)

TG: C'è chi non la sopporta; Roberto Tomasi mi ha detto: “No basta con la grana, non se ne può più, adesso possiamo avere immagini perfette”. Lui ha buttato via tutto il materiale analogico per abbracciare il digitale totalmente come l'evoluzione della fotografia chimica.

TDA: La grana dipende molto dal tipo di pellicola, se tu vai su un 20X25 la grana non la vedi. Certo se tu usi un 24X36 a 1600 Iso non puoi pensare che non ci sia la grana, capisci?


Il laboratorio De Stefanis effettua lavori di grande qualità, Tony mi fa vedere un libro realizzato per Malik Sidibe, forse il più importante fotografo africano. L'armadio contiene molti altri libri d'arte realizzati grazie alle stampe effettuate tra queste mura.

TG: Volevo sapere, se quando tu prepari un ingranditore presti particolare attenzione agli allineamenti in modo che tutto sia perfettamente perpendicolare? O no? Certo, tu hai la tua camera oscura sempre pronta, ma questo fatto di avere tutto ortogonale ti preoccupa?

TDA: Beh certo, io ho già tutto in bolla e perfettamente in piano rispetto all'asse ottico dell'obiettivo da ingrandimento.

TG: Però io so che gli americani sono un po' ossessionati da questo problema, sono particolarmente scrupolosi nei controlli, hanno degli strumenti che misurano tutto precisamente con laser e specchi. E' davvero così indispensabile quello che fanno?

TDA: No, assolutamente.

TG: La mettono giù un po' troppo dura?

TDA: Secondo me, sì.

TG: Anche perché poi una volta c'erano gli ingranditori coi piani basculanti e tutto il resto, no?

TDA: Io ce l'ho sul mio 138 il piano basculante. Il consiglio per me è sempre questo: quando tu lavori in un laboratorio non puoi metterci mezza giornata come se stampassi a casa tua. Non puoi fare un discorso del genere in un laboratorio che deve essere produttivo, perché ci sono dei costi e dei tempi da rispettare. Se in mezza giornata stampassi solo una fotografia, quanto dovrei farla pagare?

TG: C'è qualche fotografo col quale è un po' più difficile lavorare? O che magari pretende qualcosa di più? O non vi capite?

TDA: Generalmente no, non mi è mai capitato. Chiaro che se non conosci un fotografo, anche se hai visto qualche sua immagine, può essere più difficile iniziare una collaborazione. Con una fotografa siciliana con la quale non avevo mai lavorato, prima di stampare ho preferito visionare alcuni suoi libri.

TG: Perché avete scelto di fare quasi esclusivamente il bianco e nero? E' più bello?

TDA: Beh sì. Chiaramente sì, il bianco e nero è quello che ti dà la possibilità di vedere l'immagine come vuoi e di immaginartela come preferisci.

TG: Generalmente un fotografo ti chiede sempre gli stessi tipi di contrasti, o dipende dal soggetto?

TDA: Non ci può essere un contrasto unico per tutto, dipende dal soggetto. Dipende anche dalla luce, dal tipo di pellicola, sono talmente tante le variabili.

TG: Tu mascheri molto in camera oscura?

TDA: Sì, io sempre. Faccio sempre degli interventi di mascheratura e di bruciatura. In tutte le mie stampe.

TG: Usi le mani, o degli appositi strumenti?

TDA: Dipende, se sono degli ingrandimenti di un metro per un metro e mezzo uso le mani, altrimenti uso dei cartoncini con dei fori, di forma rettangolare, quadrata, ho delle bacchette speciali, oppure il ferricianuro per sbiancare, questi sono gli elementi classici che si usano normalmente in fotografia.

TG: Hai mai insegnato fotografia?

TDA: No, me l'hanno chiesto, ma non mi sento portato per l'insegnamento. Anche adesso, sto parlando con te, ma sto facendo uno sforzo tremendo. Quando sei abituato a stare da solo in camera oscura e ad essere concentrato sul tuo lavoro, perdi un po' la capacità di interagire con gli altri.

TG: Molti fotografi soffrono la camera oscura perché si sta da soli e al buio, tu cosa mi dici?

TDA: No, io invece, per me è il contrario. A me piace tantissimo (Ride)

TG: Magari stampi anche di notte...

TDA: No, per quello ho i miei orari e basta. E' un lavoro che mi piace tantissimo.

TG: Avete lavorato anche per fotografi esteri?

TDA: Elliot Erwitt è stato qui da noi. Era venuto a Milano per un paio di campagne pubblicitarie. E' un grande amico di Berengo Gardin e quindi è arrivato qui tramite lui.

TG: Ti sei occupato anche della mostra sulle grandi navi a Venezia, vero?

TDA: Sì.

TG: E' stato impegnativo?

TDA: No, erano tutte stampe piccole di cm 30X40.

TG: Quella che avevo visto al Photoshow era più grande però.

TDA: Ah sì, quella sì, era un'immagine ordinata a Gianni da un collezionista. Era un 100X150.

TG: Preferisci stampare da piccolo o da grande formato?

TDA: Se il negativo è esposto bene non ho nessuna preferenza.

TG: E con la polvere come fai?

TDA: La polvere cerchiamo d'evitarla. Abbiamo degli strumenti che ci aiutano. Abbiamo la pistola ad aria compressa ed un sistema antistatico per ridurla. I graffi può capitare che ci siano, se il negativo è stato usato tante volte. Mettere e togliere il negativo dall'ingranditore
può causare qualche graffio, è sempre un piccolo rischio. In quei casi si interviene manualmente col pennellino e la china e si ritocca. Per i difetti più impegnativi abbiamo una ritoccatrice molto brava, parlo di ritocchi sulle stampe. Prima si acida, poi si ricostruisce il soggetto come dev'essere. Per esempio, da negativo Polaroid, quando strappi, è facile provocare qualche piccolo danno. In quel modo può saltar via anche qualche pezzettino di gelatina. Parlo di negativi degli anni '90.

TG: Per le teste degli ingranditori hai preferenze?

TDA: Io stampo esclusivamente con teste Ilford Multigrade. Ormai sono più di 25 anni che stampo con questo sistema. I primi tempi facevo un po' fatica perché ero abituato con le carte monograduate, si tratta di un approccio diverso, poi, poco a poco ci prendi la mano. Col Multigrade, prima devi trovare il tempo di posa e dopo vari il contrasto.

TG: Nei primi tempi che era uscita la Multigrade c'era chi diceva che fosse perfino migliore della Ilfobrom, tu che cosa ne pensi?

TDA: No assolutamente, perché è una multistrato. Lo politenata poi è anche peggio. La baritata si salva ancora, ma la politenata ha proprio uno strato di plastica sopra. Le monograduate erano migliori. Il discorso è che nelle pellicole di una volta c'era molto più argento. Mi è capitato di stampare dei negativi del 1920 su lastra di vetro, erano di una fotografa francese che si chiamava Florence Henri. Avevo preparato una mostra a Roma e ti dico che a prima vista i negativi sembravano pessimi perché risultavano molto scuri e sovraesposti, poi in realtà una volta che li mettevi sotto la luce dell'ingranditore trovavi la posa e veniva su tutto e non facevi neanche fatica a stamparli. Perché c'era molto argento e molta informazione sul negativo.


Tony ha stampato le lastre di Florence Henri per la mostra a Roma alle Terme di Diocleziano, nel maggio 2015

TG: E' quello il fascino delle vecchie lastre?

TDA: Eh sì. Anche dai negativi molto chiari e sottoesposti, quando trovi il diaframma e i contrasti giusti sei a posto e vai via tranquillo. E' incredibile.

TG: Chiaramente, anche le carte fotografiche erano più ricche d'argento.

TDA: Assolutamente sì.

TG: C'erano le famose carte ungheresi della Forte che erano molto ricercate, voi le avete usate?

TDA: Sì, per un certo periodo le abbiamo usate. Il problema era che siccome non c'era tanta richiesta rischiavi sempre di trovare del materiale vecchio e noi come laboratorio non potevamo permetterci d'usare carta scaduta. Un tempo, da Gabriele, io usavo moltissimo la carta Agfa.

TG: Adesso per l'approvvigionamento delle carte come fate?

TDA: Vorrei dire che non è assolutamente vero che non si trovano i materiali fotografici. I materiali si trovano eccome; certo, adesso c'è un fornitore unico, Ilford, che è quello che ha monopolizzato il mercato del bianco e nero tradizionale.

TG: Ordinate direttamente da loro il materiale che vi serve?

TDA: Abbiamo il nostro fornitore, facciamo l'ordine e generalmente, nel giro di un giorno o due entriamo in possesso del materiale. A meno che non si facciano richieste particolari, del tipo: una bobina alta 127 cm. X 30 metri. A quel punto se vuoi averla in fretta, devi avere la fortuna che ce l'abbiano già in casa, altrimenti devi aspettare quelle 2 o 3 settimane per permettere al produttore di realizzare il prodotto.

TG: Questo perché Ilford produce una volta al mese, vero?

TDA: Esatto. Fanno un master roll, poi quando prendono tutte le ordinazioni tagliano il tutto nei vari formati. Io fino ad adesso non ho mai avuto grossi problemi.

TG: Quindi tu lavori esattamente come 30 anni fa, quando sei arrivato qui da De Stefanis?

TDA: Sì, sono cambiati soltanto i ritmi, per me. Paradossalmente preferisco adesso che un tempo perché si lavora con meno fretta e faccio cose più interessanti. Prima era un lavoro di routine che andava svolto in fretta per consegnare ai giornali, oppure stampavamo per le press-release che in genere erano 2000 stampe tutte uguali. Adesso faccio più mostre, stampo di più per libri fotografici, per collezionisti, si tratta tutte di stampe virate al selenio, per avere una maggiore stabilità nel tempo. Faccio anche un po' di produzione, però è minima, sono venute a mancare le quantità di una volta.

TG: Ti capitava di correggere le linee cadenti sul piano basculante dell'ingranditore per Gabriele?

TDA: Per la fotografia d'architettura mi diceva di mettere le linee dritte, ma quando scatti in 4X5 hai già corretto tutto.

TG: Ti è mai capitato di correggere le sue fotografie in stampa?

TDA: No, assolutamente.

TG: Con i piani basculanti dell'ingranditore, una volta che li muovi devi poi correggere tempi di posa, mascherare certe zone e tutto il resto, per questo si evita di correggere le linee in questa fase del processo fotografico?

TDA: Sì, quando tu basculi ti varia anche il fuoco e rischi d'avere una parte della fotografia a fuoco e l'altra no. Quelle sono cose veramente di una pignoleria estrema. Se fai del reportage non stai a guardare se una linea è dritta oppure no, quello che conta è l'immagine che hai realizzato in un determinato attimo.

TG: Commentami invece la decisione della Reuter che non vuole più che le immagini vengano scattate in Raw, proprio per evitare che gli scatti vengano contraffatti.

TDA: Sì, il fotografo Fabio Paleari mi ha accennato questa cosa tempo fa, comunque ai tempi della pellicola non accadevano queste cose, nessuno si metteva a fare un fotomontaggio per modificare una fotografia di reportage. Credo che questa questione del jpeg venga fatta anche per una questione di costi. Comunque io del digitale so veramente poco. Una volta ti poteva capitare di consegnare una fotografia ed il grafico sceglieva di farti un taglio particolare, questo era il rischio, ma l'immagine era quella che avevi scattato tu. Sinceramente, questo però non è un problema che mi pongo. Il mio problema è quello di fare una stampa giusta. Non si sa mai se una stampa va davvero bene...

TG: E' anche una scelta soggettiva...

TDA: Esatto, in bianco e nero è soprattutto una cosa che dipende da un gusto soggettivo: quello che per me è contrastato, magari per te è grigio, e vice-versa. Non è come il colore che il verde dev'essere verde e anche tutti gli altri colori devono essere fedeli all'originale.

TG: A me piace sempre un'immagine un po' contrastata, ma dipende anche molto dalla visione che ha una persona. Non è che vediamo tutti allo stesso modo, no?

TDA: Certo, questa è la prima cosa da dire per la stampa del bianco e nero. Avevo letto una bella cosa scritta da Ansel Adams che proprio su questo argomento diceva che aveva realizzato una serie di stampe che a lui sembravano bellissime e le aveva fatte vedere a degli amici che gli avevano detto che erano contrastatissime. Lui rispondeva di no che era impossibile che fossero troppo contrastate. Mise via queste stampe e le riguardò dopo un po' di tempo ed effettivamente si accorse che erano molto contrastate. Effettivamente la stampa dipende anche molto dal tuo umore, specie se stai troppo in camera oscura. Certi giorni puoi essere nervoso o arrabbiato e ti può capitare di stampare in modo molto duro. Vice-versa, altri giorni sei allegro e stampi in maniera più leggera e morbida. Ti giuro, a me è capitato, veramente. La stampa fotografica può essere anche un po' umorale, come quasi tutto nella vita.

TG: Poi dipende con che luce la vedi. Le variabili sono tante.

TDA: Per uno stampatore è sempre più difficile che per il fotografo che ha visto il soggetto originale. A me è capitato che siano venuti qua dei fotografi dandomi un negativo senza dirmi niente. In quei casi, ovviamente, io vado in camera oscura ed interpreto la stampa a modo mio, per come vedo io le cose, però poi vado a consegnare le stampe e mi sento dire che loro si aspettavano che fosse un po' più in un modo o in un altro. A quel punto, se tu hai delle esigenze e non me le dici non puoi pretendere che io sia telepatico.

TG: Lo stampatore può essere visto un po' come il montatore per il cinema, nel senso che ti aiuta a fare delle scelte?


TDA: Lo stampatore è come un direttore d'orchestra che dice ai musicisti come suonare una musica che ha scritto qualcun altro. E' questo quello che succede. Sei un direttore d'orchestra che manipola, contrasta, ammorbidisce, maschera, brucia le parti di un'immagine per sottolinearne il significato o gli aspetti che t'interessano rispetto ad altri che vuoi mettere in secondo piano. Almeno, io ho sempre pensato che lo stampatore fosse un direttore d'orchestra. Secondo la mia filosofia, quando io stampo un'immagine quella non è l'immagine di Gabriele Basilico, ma è un'immagine mia e per questo cerco sempre di dare il massimo delle mie capacità.

TG: Sembra che in America invece, per le mostre fotografiche ed il collezionismo non vogliano più le stampe digitali, ma vogliano le stampe su carta baritata. Cosa ne pensi di questa nuova tendenza?

TDA: Tu li spenderesti 10'000 euro per una stampa digitale che sai che è inchiostro? O ne spenderesti 10'000 per una che è fatta di sali d'argento, fatta a mano e virata al selenio? Non ti sembra che tra le due ci sia qualcosa di diverso?

TG: Come procedi quando sai che devi fare una stampa museale?

TDA: Quando mi capita di dover fare una stampa museale generalmente non mi limito a stamparne una sola, ma ne faccio sempre due, perché sai, ti può sempre succedere qualcosa. Ci sono sempre particolari attenzioni nel lavaggio, si passa la stampa in un eliminatore di iposolfito per togliere tutti i residui del fissaggio, e poi si passa al bagno di selenio. Si prende un bagno di selenio sempre fresco, ogni volta che devi fare un viraggio prepari un bagno di selenio sempre nuovo, generalmente io lo diluisco sempre 1:20 – 1:25, perché il selenio non deve alterare il tono della fotografia. 

TG: Dopo questi trattamenti, quanto tempo vengono garantite le stampe?


TDA: Sai, se la fotografia  è esposta alla luce il processo fotografico continua ad andare avanti nel tempo. Non è che si blocca lì. L'unico modo per arrestare questo processo è quello di tenere la stampa chiusa in un cassetto al buio, così puoi essere sicuro che non succede niente. Il viraggio al selenio serve proprio a rallentare eventuali trasformazioni chimiche all'interno dei sali d'argento che immagazzinano gli elementi che compongono l'immagine. Anche un vetro museale che filtra un po' i raggi UV può servire a rallentare l'invecchiamento dell'immagine ed a quel punto sei abbastanza tranquillo per un bel po' di tempo.

TG: E sulla questione delle certificazioni che adesso tutti pretendono, richiedono o vogliono, che cos'hai da dire? Anche se è un aspetto che riguarda più il mondo della stampa digitale.

TDA: Per il digitale noi usiamo solamente carta Hahnemühle, la certificazione si deve pagare, quindi costa di più. Dietro alle mie stampe sulla carta baritata apponiamo un'etichetta che mi fornisce la Ilford che specifica che quella è una stampa ai sali d'argento e non una stampa digitale.

TG: Quello serve solo ad una identificazione del tipo di tecnica di stampa effettuata se non sai riconoscere la carta?

TDA: La carta la riconosci, perché tra una politenata ed una baritata si capisce bene qual'è la differenza...

TG: Infatti, ma questo fatto vuol dire che c'è chi stampa il digitale sulla carta baritata, vero?

TDA: Sì, esiste questo famoso ingranditore digitale che ti dà la possibilità di stampare direttamente i file sulla carta fotografica, lo so, però... Più che altro si definisce quello che è una stampa ai sali d'argento per la tranquillità dei collezionisti.

TG: I collezionisti capiscono di fotografia e stampa, o no?

TDA: Mah, mica tutti. Ci sono collezionisti che capiscono anche di fotografia, ma altri che comprano solo per investire dei soldi. C'è un collezionista che mi ha fatto stampare una fotografia su carta baritata, ma poi non l'ha voluta montare. Noi le facciamo poi montare da personale di nostra fiducia, non è un'operazione che facciamo personalmente, comunque questi laboratori montano su alluminio formati anche di 100X150 cm. Questa stampa di cui ti parlavo era un 70X100 cm.

TG: E poi che cosa è successo?

TDA: La baritata sente le variazioni climatiche perché è una fibra viva, la fotografia di questo collezionista dopo un po' di tempo aveva iniziato a prendere qualche ondulazione, è una cosa naturale. Insomma questa persona la voleva piatta e mi ha rimandato indietro la fotografia perché lui aveva visto delle fotografie piatte, ma quelle erano montate. Ho dovuto rifare la stampa e metterla su alluminio. Anche se tu la metti sotto vetro, se non la monti la carta resta piatta fintanto che il clima è secco, ma quando è umido tende ad ondularsi. L'unica carta che resta piatta è la politenata, ma quella è plastica, non è carta da collezionismo.

TG: Quanto può durare una stampa argentica in bianco e nero fatta bene, lavata ad arte, virata e tutto il resto? Mediamente. 50 anni?

TDA: Anche di più. Al limite avrai un po' d'ingiallimento.

TG: Per i negativi invece che cosa bisogna fare per poterli conservare a lungo?

TDA: Per i negativi c'è un bagno che si chiama Sistan (Tiocianato di Potassio) fatto dall'Agfa che serve per la stabilizzazione dell'argento metallico. Era un bagno che usavo anche quando sviluppavo la politenata grande, perché alcuni volevano la politenata per collezione.

TG: C'era chi voleva la politenata per collezione?

TDA: Perché volevano spendere meno. Questo bagno col Sistan formava come una pellicola protettiva sopra l'immagine ed aiutava, anche in questo caso, a rallentare il processo d'invecchiamento.

TG: Ci sono dei materiali che sono spariti e ti mancano?

TDA: Io avevo uno sviluppo dell'Agfa che era eccezionale, ti alzava tutti i mezzi toni della carta, era favoloso, era commercializzato in polvere, mi sembra si chiamasse Normaton S, o qualcosa del genere.

TG: E l'HC110 della Kodak?

TDA: Quello c'è ancora, è uno sviluppo a perdere per la pellicola, va bene quando devi fare uno sviluppo manuale. Lo sviluppo manuale costa di più e mica tutti sono disposti a spendere, hai capito? Dopo ti farò vedere la nostra sviluppatrice per negativi a telai che adesso ha dentro uno sviluppo Kodak, credo. Adesso non mi ricordo che sviluppo è.

TG: Si grazie, sono curioso, magari le cose relative allo sviluppo le chiediamo al tuo socio Massimo Mangione.


Ci spostiamo per andare a vedere la sviluppatrice a telai dove incontriamo Massimo, il socio di Tony.


Sviluppatrice AFI Miniflex 50

Tony Graffio: Massimo tu tanti anni fa hai fondato questo laboratorio con De Stefanis, che cosa ti ricordi di quei tempi?

Massimo Mangione: Ricordo che mi cercò De Stefanis perché ci conoscevamo da tempo e mi fece la proposta di mettermi in società con lui perché io ero l'assistente di Mario De Stefanis presso il Mauro Masera che era un fotografo. Mario era lo stampatore di Mauro, all'epoca eravamo qua a Milano, in via San Michele del Carso. Ho accettato questa opportunità perché conoscevo Mario benissimo, in seguito, circa 30 anni fa, ci ha raggiunto anche Tony D'Ambrosio.

TG: Tu arrivi dalla foto-litografia?

MM: No, io arrivo proprio dalla fotografia. Facevo il fotografo. Io lavoravo con Franco Zilioli e Flavio Carlotto. Da loro facevo l'assistente di ripresa, ma anche sviluppavo e stampavo. Da lì è nata la passione. Ho sempre lavorato con chi faceva fotografia d'arredamento, però ero più portato per la moda. Quando Mario mi ha proposto questa società ho accettato e da lì siamo andati avanti. Siamo cresciuti assieme, poi purtroppo lui è mancato e siamo rimasti io e il Tony, cercando d'andare avanti.


AFI Miniflex 50 all'opera

TG: Quanti anni hai?

MM: 65 anni.

TG: Quando è arrivato il digitale eravate tutti d'accordo per continuare a far finta di niente e proseguire a lavorare come prima?

MM: Beh sì, noi siamo stampatori tradizionali, io non sono molto per il digitale, però vedi che adesso lo stampiamo, abbiamo una persona che collabora con noi e otteniamo buoni risultati.

TG: No, non è una colpa lavorare in digitale, io volevo solo capire che cosa vi ha portato a credere nell'argento piuttosto che nei bit.

MM: Nelle lavorazioni all'argento c'è una manualità che è completamente assente nel digitale e ci sono caratteristiche diverse. Secondo me tutte le fotografie digitali in bianco e nero che vedo sono false perché sono fotocopie. La bruciatura, che se vuoi è il difetto della stampa analogica, perché queste sono abbastanza evidenti è un po' anche il suo bello. E poi, onestamente, alla mia età che cosa faccio? Mi metto a stampare in digitale? C'è una concorrenza che è spietata. Mi piace anche dare i consigli ai ragazzi che vengono qua da noi. A loro dico sempre: fate anche l'analogico perché quando passerete sul monitor del digitale voi riuscirete a gestirvi il lavoro come se voi faceste delle stampe in camera oscura.

TG: So che anche per la stampa del colore analogico erano arrivati dei video di controllo e degli analizzatori elettronici molto sofisticati, anche per il bianco e nero esiste qualcosa del genere? Voi avete usufruito di questi strumenti?

MM: No, il bianco e nero è un modo di stampare che è troppo caratteriale, io per esempio, stampo in maniera molto diversa da Tony e vice-versa. Ci sono clienti che chiedono che sia io a stampare per loro e diversamente altri richiedono Tony D'Ambrosio.

TG: Tu hai un modo più morbido d'interpretare un soggetto?

MM: Io ho una stampa un po' più morbida, mentre lui stampa un po' più brillante e contrastato. Il bianco e nero è soggettivo puoi stamparlo in tantissimi modi differenti.

TG: Che testa usi tu?

MM: Io ho una testa che non è a condensatori, ho un Laborator con la testa Multigrade.

TG: Conosci Giancarlo Vaiarelli?

MM: Certo, per certi periodi è stato qua a lavorare con noi. Ogni tanto viene ancora da noi, lui fa determinati lavori che noi non facciamo. Quando si lavorava molto per la moda qua c'era molto da fare, mediamente arrivavano 200-300 rullini alla volta, bisognava correre. Oltre allo sviluppo bisognava fare i contatti e poi tutte le stampe. A volte eravamo in 3 o 4 a stampare le baritate per Aldo Fallai, o per le campagne di Armani e Trussardi. Adesso il lavoro è un po' più tranquillo, facciamo i libri fotografici e le mostre, questi lavori sono seguiti soprattutto dal Tony. Cerchiamo di fare la qualità, noi trattiamo sempre le baritate con il wash-aid a nostre spese, cosa che nessun altro fa. Si tratta di un eliminatore d'iposolfito che dà una garanzia in più al cliente.

TG: Adesso raccontami per favore qualcosa di questa favolosa sliluppatrice.

Massimo Mangione: Questa è la sviluppatrice a telai che sviluppa tutti i formati dal 2,4X3,6 al 20X25 cm. E' una macchina italiana, una AFI Miniflex 50. Funziona in modo automatico con tutti i bagni termostatati, ha l'agitazione micrometrica ad azoto e ci sono dei filtri in fondo alle vasche. Un'altra cosa importante è che i rigeneri sono automatici ed hai un modo di sviluppare costante. Lavorando in modo manuale ci possono essere delle imperfezioni proprio perché le temperature e l'agitazione non sono costanti, mentre qui è tutto costante.

TG: Atraverso quanto bagni passano le pellicole?

MM: Due passaggi in sviluppo, un passaggio in acido acetico, nel bagno di stop, due passaggi in fissaggio, due passaggi in acqua, un passaggio nell'imbibente, uno sgocciolamento, perché l'imbibente dev'essere tolto prima di passare nel forno altrimenti da caldo si formerebbero subito le macchie delle gocce e da ultima l'asciugatura nel forno.

TG: I passaggi in due bagni servono per inquinare meno il bagno successivo?

MM: No, in realtà lo sviluppo avviene sempre nella stessa vasca, si fanno due passaggi perché si alza il telaio per sgocciolare la chimica utilizzata e recuperarla. Questa macchina è costruita molto bene.


Tony mi spiega come si agganciano i telai

TG: Per la manutenzione come fate?

MM: La manutenzione la faccio io, dove posso, ovvio se succede qualcosa di grave chiamo l'assistenza, c'è ancora chi interviene su queste macchine. Prima se ne occupava un tecnico di Pordenone perché mi faceva l'assistenza anche dell'Autopan. Vedi, adesso è partito un timer e la macchina sale e scende.

TG: Possono capitare dei guasti, o è difficile?

MM: Difficilmente, può capitare che salti un fusibile. Può capitare qualcosa nel forno perché ci sono delle ceramiche, hai un consumo, può essere che parta qualche ceramica, però per fortuna c'è ancora qualcuno che fa gli avvolgimenti, senza dover ricorrere a sonde che qui diventerebbe difficoltoso mettere, perché bisognerebbe cambiare tutto. E' una macchina meccanica che è favolosa.

TG: Ce l'avete da 30 anni?

MM: No, è la seconda, ma prima ce n'era una uguale. Abbiamo scelto appositamente una macchina semplice. Ci sono delle macchine più complicate ed hanno un mucchio di problemi sulla parte elettronica. Io ho cambiato solo il timer un paio di volte e basta chiuso, nessun altro problema.

TG: Di roba elettronica qua dentro c'è qualcosa?

MM: No, di roba elettronica ho cambiato solo un paio di volte le resistenze per il forno, perché quelli sono pezzi soggetti ad usura e con il tempo vanno, ma di altre cose, per fortuna, per il momento non ho cambiato niente.

TG: E la meccanica come va? Queste catene, questi ingranaggi?

MM: Le catene le pulisco e le olio io, le ho pulite l'altro giorni, adesso devo mettere del grasso marino che è fantastico. Una volta, ho dovuto sostituire l'asta che fa alzare il cestello, ma è una stupidaggine.


La bombola d'azoto da Kg 10

TG: L'azoto si trova facilmente?

MM: Sì, la bombola d'azoto si trova facilmente, ti portano quella da 10 chili, ci sono anche più piccole, ma io preferisco queste qua che mi danno più autonomia ed in proporzione costano meno, perché l'azoto costa eh! Per chi vuole noi facciamo i trattamenti manuali, però ormai si fa ben poco perché il mio tempo costa, non posso lavorare gratis. Negli anni 70 tutti i fotografi avevano il loro laboratorio B/N interno.

TG: Tu mi stai dicendo che il fotografo preferisce spendere per le stampe che per lo sviluppo?

MM: Sì ed è sbagliato perché da uno sviluppo manuale si ottiene una qualità superiore rispetto ad uno sviluppo in macchina, perché hai dei tempi più lunghi ed hai degli sviluppi dedicati per i tipi di pellicola che usi.

TDA: Qua in macchina c'è uno sviluppo che deve andare bene per quasi tutti i tipi di pellicola, cosa che produce una qualità leggermente inferiore allo sviluppo dedicato, mentre se tu fai uno sviluppo manuale puoi usare l'HC110 che è uno sviluppo a perdere che è quello che ti dà la qualità. Infatti, gli sviluppi a perdere sono sempre i migliori.


La sviluppatrice lavora con il Kodak XTOL

TG: Quelli liquidi.

TDA: Esatto. Oppure quando fai quegli sviluppi in soluzione 1:1 che poi, una volta utilizzato, butti via. Il D76 che è uno sviluppo fantastico che può essere utilizzato in questo modo. Ovvio che facendo così i costi aumentano. Lo sviluppo che abbiamo in macchina viene rigenerato, non viene buttato via.

MM: Una fase importante di questo lavoro è il controllo dell'alcalinità. Quando l'alcalinità del bagno sale lo sviluppo, o il fissaggio, va rigenerato. Quando sale troppo devi cambiare il bagno. Assolutamente. Abbiamo delle cartine per questo scopo, a parte che per il fissaggio puoi usare il classico spezzone di pellicola e vedere se diventa trasparente, ma questo sistema va bene fino ad un certo punto. Le cartine ti indicano con precisione il Ph dei bagni.

TG: Adesso che si sta avvicinando il 30° anniversario del vostro laboratorio come pensate di festeggiare questa ricorrenza?

MM: Non ci abbiamo ancora pensato, ma sarebbe bello festeggiare con tutti i nostri clienti. Forse si potrebbe fare anche una mostra, come facemmo molti anni fa, a Brera, da Lanfranco Colombo. Quello fu un evento molto bello, allora Tony era con noi da poco tempo e le stampe le preparò quasi tutte lui, insieme a De Stefanis.

TG: So che comunque siete rinomati anche per la qualità della vostra stampa digitale a colori, per chi stampate?

TDA: L'artista Marina Abramovich ci porta da stampare le sue opere. Noi siamo il suo laboratorio di riferimento per l'Europa. Ci arrivano gli ordini da New York, noi stampiamo quello che ci inviano e poi mandiamo le stampe nelle varie gallerie del continente. A Oslo, piuttosto che a Basilea, a Parigi, o a Madrid.

TG: Grazie Tony, grazie Massimo, mi avete raccontato delle cose interessantissime.


Laboratorio De Stefanis
Tony D'Ambrosio, stampatore B/N fine art, 60 anni

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