mercoledì 2 dicembre 2015

L'arte in fotografia e la fotografia nell'arte, una dissertazione sullo strano rapporto creativo tra autore e interprete


Parte di una nuova opera di Federico De Leonardis
Parte di una nuova opera di Federico De Leonardis

Circa 15 giorni fa sono tornato a trovare l'artista Federico De Leonardis nel suo studio, a Sesto San Giovanni: avevo bisogno di chiarimenti su che cosa lui pensasse della fotografia e che ruolo secondo lui occupa questa disciplina nella sua opera. Stimo molto il De Leonardis perché è persona di grande cultura ed un artista puro che non scende a compromessi con niente e nessuno, quando pensa qualcosa va fino in fondo ed ha una volontà ferrea, capace eliminare ogni ostacolo si frapponga ai suoi progetti; è anche capace di spaccare qualsiasi muro per esprimere l'energia che contiene la vita e l'arte. Mi presento da lui insieme ad un mio amico collezionista che non lo conosce, ma che aveva sentito parlare del suo stile deciso e che aveva visto un'installazione dell'artista fuori Milano.


Ricordi ed archivio

Mentre De Leonardis era occupato ad intrattenere una gallerista, io ne avevo approfittato per curiosare nella parte alta del suo studio, dove vengono conservati documenti, disegni vari e schemi che spiegano come rifare le installazioni quando Federico non sarà più materialmente presente tra noi (gli artisti si preoccupano molto di che cosa accadrà alla loro opera quando loro non ci saranno più). Incrocio cianfrusaglie varie, apparentemente prive di alcun valore, ma testimonianze di un un possibile attaccamento sentimentale e, finalmente, provo anche l'emozione di scoprire delle buste gialle con all'interno una gran quantità di fotografie che ad occhio e croce avranno tra gli 80 ed i 100 anni. Le sfoglio e resto ancor più colpito dal fatto di trovarmi in presenza di un uomo che proviene da una famiglia che ha documentato il suo passato ed è in grado di mostrarmelo. Sono incuriosito dalle immagini che emergono lentamente da piccoli fogli di carta, quasi tutti in bianco e nero, o color seppia, immagini che riproducono un passato di un certo fascino e non prive di un certo gusto per l'inquadratura.


Un bel tubo per la carta velina

L'ambiente è molto polveroso, ma non trasandato (spaccare i muri e tagliare il ferro solleva polvere di cui è difficile sbarazzarsi). Si capisce che i vari oggetti non sono stati sistemati a casaccio, ma con affetto, mi sembra di violare in qualche modo la privacy di una persona riservata, di temperamento orgoglioso che vive la propria arte nella solitudine del proprio studio che eccezionalmente ha accettato di mostrarmi, insieme al proprio stile di vita per raccontarmi anche una parte della storia della sua famiglia. Intanto, il mio amico rimane in educata attesa che il padrone di casa animi l'atelier con la sua voceQuando Federico termina il colloquio con la sua ospite e ci raggiunge sul soppalco sul quale ha posto un tavolo e l'occorrente per scrivere, sono desideroso di conoscere meglio le storie che trapelano, anche solo superficialmente, dalle immagini fotografiche contenute nelle buste di carta. Quella che segue è la trascrizione della registrazione effettuata quel giorno nel suo studio. TG


Federico de Leonardis
Il banco di "riflessione" di FDL

TG: Ciao Federico, queste fotografie sono della fine degli anni '30, vero?

FDL: Queste? Questa, per esempio è del matrimonio di lusso di mio zio, fratello di mia madre, in tight, guardalo! In tight, a Roma. E in quest'altra fotografia vedi mio padre che gioca a tennis.


Il padre di Federico De Leonardis, frequentatore assiduo del Circolo di Marina di Spezia
Il padre di Federico De Leonardis, frequentatore assiduo del Circolo di Marina di Spezia


TG: Tuo padre che lavoro faceva?

FDL: Mio padre faceva l'ingegnere.

TG: Che tipo d'ingegnere, edile o meccanico?

FDL: Era un balista, mio padre, faceva cannoni. Progettava cannoni. Dopo la guerra ne aveva inventato uno che è stato adottato da tutte le marine del mondo. Il problema meccanico nel tiro continuo, a mitraglia (dopo qualche colpo, due o tre, la canna si surriscalda e ciò va a scapito della precisione e può avere conseguenze anche peggiori), lui l'aveva risolto attraverso l'invenzione di un banale sistema di raffreddamento della canna stessa. Il cannone creava una cortina di fuoco contro le incursioni aeree. Ti racconto un episodio interessante, in tema con le fotografie che stai sfogliando.
Durante la guerra, giovane ingegnere appena assunto, venne costretto dai tedeschi ad accompagnare in Germania un cannone che fabbricava la ditta dove lui era impiegato, la Oto Melara. Lui era un ufficiale di marina, però lasciò la marina a 28 anni, l'anno della mia nascita, nel 1938. A quell'epoca, era prassi comune che i giovani ufficiali con competenze tecniche venissero invitati nelle industrie belliche e cambiavano carriera. Nel 1944, gli italiani deportati in Germania non tornavano più e fu proprio in quell'anno che mio padre venne prelevato dai tedeschi per istruirli, in Germania, sul funzionamento di un cannone della Oto Melara. Terminato il suo compito in quella terra, lui riuscì comunque a scappare e a tornare in Italia, travestendosi da militare tedesco. Mia madre se lo vide tornare a casa un mese dopo la partenza. Era rassegnata, non sperava più di rivederlo. Sai, durante la guerra c'era un casino pazzesco. La Spezia è stata bombardata a tappeto perché era un porto militare. Gli aerei alleati arrivavano dall'alto, da molto in alto perché il porto era munito di un'efficientissima contraerea e quindi le bombe finivano giù un po' a casaccio. Alcune bombe caddero anche a Lerici (dove appunto abitava la mia famiglia), che non era un obiettivo. In questa fotografia, la vedi? Avevo 4 anni. Mia sorella ed io trovavamo dei giocattoli esplosivi (Bombe mascherate da giocattoli) in giardino, per fortuna i grandi arrivavano in tempo per toglierceli dalle mani. Me lo raccontarono i miei nonni; ovviamente io non potevo conservare memoria di quei fatti. Sempre in questo giardino, ricordo benissimo che era caduta una bomba di fronte alla casa del contadino che viveva lì. Lo spostamento d'aria aveva scoperchiato tutto il tetto, mentre l'esplosione aveva provocato un buco enorme nel terreno. Nella mia mente c'è anche traccia dell'immagine del cono della fossa e della punta della casa segata di netto. Ho un ricordo nebuloso di quando a notte fonda, pieni di sonno, ci trascinavano nel rifugio antiaereo che poi era soltanto la cantina della casa. Noi bambini volevamo solo dormire, non ci accorgevamo quasi di nulla, non avevamo paura, no? 

Lo zio di Federico De Leonardis nell'esercito italiano
Lo zio di Federico De Leonardis nell'esercito italiano

Certo che i bambini hanno paura, ma stiamo scherzando? A meno che non si auto-convincano che quelle che esplodono intorno a loro non sono bombe assassine, ma assi cartesiani che viaggiano come righe su un foglio di carta e che nulla può far loro male perché, generalmente, un essere vivente che forse ancora non comprende bene d'essere parte d'un sistema più complesso, rifiuta l'idea della morte. Un bambino è troppo giovane per comprendere, o anche solo immaginare di morire. Non per questo però la morte non lo tocca.
I bambini sanno leggere negli occhi dei loro genitori che non possono nascondere la loro paura di perderli. 
Purtroppo queste realtà sono ancora vive ai nostri giorni in altre parti del mondo e non sempre gli adulti dispongono di un proprio equilibrio psicologico e di una propria stabilità, o lo spazio vitale necessario ad aiutare i propri figli e a proteggerli dalla paura e dagli orrori della guerra. Si può ben capire come la paura e tanti fatti negativi siano in realtà la molla che suscita certi comportamenti nell'uomo: quello che facciamo oggi, ci ritornerà indietro domani, anche se spesso non si vuol capire questa cosa.
Mi viene istintivamente da riflettere a quello che può aver visto Federico da piccolo ed a quello che l'artista FDL realizza nel suo studio, immagino un bambino che vede la forza invisibile dell'aria lanciata a velocità del suono e dei detriti che vengono spostati a velocità impressionante che scoperchiano case, spaccano muri e lasciano tracce del loro passaggio in modo inequivocabile, un po' ovunque. Un bambino che vede il suo primo cadavere, il vicino di casa, a 4 anni.
L'arte di Federico De Leonardis esprime chiaramente, allo stesso modo, l'idea di qualcosa di violento, un'energia assente che taglia la realtà del piano in cui viviamo e poggiamo i piedi; basti pensare alla sua opera realizzata con le mazze dei cavatori che conservano in loro l'energia del lavoro, per capire come per lui l'arte sia una forza cinetica, oltre che un impulso creativo. Mostrando una serie di resti all'interno dell'ambiente, come piani immateriali che incrociano punti nei muri e nello spazio architettonico, "Catenarie" che si prolungano attraverso la visione di geometrie ben precise, "Punti, linee e superfici" imprigionate in ambienti che chissà se potranno più tornare ad essere quello che erano prima Federico ci fa vivere un evento immaginario passato. Un altro spazio altrettanto presente di quello reale: uno spazio di memoria.
Per me, ora è tutto chiaro, capisco da dove arrivi l'ispirazione di uno scultore che scolpisce il vuoto ed ha un suo modo d'intervenire sugli spazi che probabilmente non è guidato dalla sua fantasia, ma da un trauma infantile. (Questo è quello che penso io, prima di fare un'altra domanda, questa volta più generica, a Federico. ndTG)

TG: Da dove arrivano queste fotografie, Federico?

FDL: Mah, c'era uno scrittoio a casa di mia madre a Lerici, dove la famiglia le conservava in un cassetto. Ne ho fatto un lavoro, secondo me molto bello, utilizzando esclusivamente scatti di sconosciuti. Si chiama "Sonata in mi minore". Sai, io vengo da una famiglia piccolo borghese, ma borghese con velleità di nobiltà, in qualche modo. Probabilmente una nobiltà acquisita nell'Ottocento, dove i borghesi neoarricchiti del Sud, dopo aver sfruttato i contadini, si procuravano il titolo. Di queste storie parla Arminio in Terracarne. Per quanto riguarda i de Leonardis, (nota il de minuscolo che io ho voluto correggere in maiuscolo), non lo so per certo se è andata così, sono illazioni mie. Nessuna traccia di arrivismo in mio padre, forse un poco in mia madre, che non c'entra niente con questa storia, era tedesca e, a detta sua con una espressione di snobismo in negativo, “discendente di una famiglia di contadini di Norimberga”, arrivati in Italia nell'Ottocento.

TG: Fammi vedere qualcos'altro per favore.

FDL: Vedi, qui ci sono mia madre e mia zia nella casa di Lerici di cui parlavo prima, in un periodo in cui ero appena nato probabilmente: si chiamava e forse si chiama ancora: "La Bellavista", una villa d'anteguerra che poi, allo scoppio del conflitto e durante l'invasione nazista, ospitò il comando dei tedeschi. Di sotto c'erano i repubblichini, in mezzo abitavamo noi e sopra il comando.


La madre e la zia di FDL alla Primazzina di Lerici
La madre e la zia di FDL alla Primazzina di Lerici

TG: Quando hai iniziato a volerti esprimere come artista?

FDL: Molti anni fa sono stato sottoposto ad un intervento chirurgico, ero pelle e ossa, mi son detto: cosa mi è successo? Mi sembrava d'essere un ebreo uscito da un campo di concentramento, ho fatto un sogno ed ho sognato quell'oggetto lì, e l'ho rifatto ed è stato il mio primo disegno.

TG: sembra un cervello sopra un albero...


Federico nella sua "cella d'artista". Sul cavalletto la sua prima opera scaturita da un sogno


FDL: Esatto! Si chiama quercia malata perché era la mia forza ad essere malata Dal sogno mi ero svegliato con in testa la parola robur, che in latino significa sia quercia che forza. Comunque sia, maniacalmente (avrò disegnato duemila foglie), con l'inchiostro ed un pennino, ho rifatto il mio sogno graficamente. Successivamente, 20 anni dopo, volevo regalare quel disegno a mia figlia e mi sono messo lì con la china a correggere piccoli particolari; col gomito ho rovesciato l'inchiostro ed ecco il risultato: sia chiaro, mi piace lo stesso, forse di più: l'evento, l'imprevisto sono entrati nell'opera. Ah ah (ride di gusto).


Federico De Leonardis ed il fungo atomico di un cervello sbocciato da un albero disegnato da lui in un momento particolare della sua vita
Federico De Leonardis ed il fungo atomico di un cervello sbocciato da un albero disegnato da lui in un momento particolare della sua vita

TG: L'arte parte dal sogno? 

FDL: Può essere, il Surrealismo, sai, lo sostiene, ma io ora nego decisamente il Surrealismo, che è un movimento letterario, fondamentalmente letterario (Magritte, Tanguy, Dalì ecc, faccio eccezione per Max Ernst e il primo Giacometti, l'unico scultore surrealista del gruppo). Essenzialmente l'arte visiva, ma tutta l'arte in genere, è un'altra maniera di pensare, non l'ho detto io però. È una cosa verissima, lo diceva un critico americano che si chiamava Harold Rosenberg, che è poi colui che ha lanciato l'Action painting in America. Non era un coglione! Ma è vero, tu non puoi tradurre il mio pensiero visivo in parole. Puoi solo cercare di avvicinartici o cercare un modo di tradurre queste cose. Certo, la fotografia è una traduzione, forse è più importante la fotografia d'interpretazione delle opere stesse. L'interpretazione di un bravo fotografo è fondamentale. Ho visto un libro di Ugo Mulas sull'arte americana degli anni in cui lui andò in America che è straordinario. Sono più belle le fotografie di Mulas delle opere che ritraggono. Perché? Perché lui era un ottimo interprete. Qualsiasi fotografia fatta da Ugo Mulas azzecca e vede magari quello che un altro non vede. Quando tu vieni a vedere un lavoro, il tuo occhio è diverso dall'occhio di un altro. È il tuo occhio che vede, è il tuo occhio che interpreta, attraverso il mezzo tecnico che utilizzi ancora di più, cioè diventa un qualcosa che rimane. E sul discorso del rimanere, se ne può parlare tantissimo. In fondo, quando io vedo un'opera, o una mostra, che cosa rimane dentro di me, se io sono andato a vedere qualcosa con lo spirito e l'attenzione giusti, con un atteggiamento intellettuale che non sia superficiale, filosofico o di consumo intellettuale? Se vai a vedere Giotto, lo vai a vedere per rubare a Giotto qualcosa, non per rifarlo. Tu fai sempre e solo te stesso, spinto da quella emozione che hai ricevuto da un altro, da Giotto in questo caso. È la memoria dell'opera a rimanere in te, non l'opera, per cui tutto questo possedere, questo collezionismo, questo mercato... 

TG: Allora tutto parte dall'osservazione di ciò che fanno gli altri? 

FDL: La cultura è molto importante, la cultura visiva naturalmente, che non è quella letteraria. Non è possibile pensare di fare qualcosa di nuovo se non si conosce bene tutto quello che è stato fatto in passato. Oggi noi dobbiamo nascondere lo sguardo, non possiamo più mostrare le cose direttamente, le dobbiamo nascondere, facendone vedere solo una piccola parte che fondamentalmente è quello che faccio io nelle mie opere. Io faccio vedere una piccola parte, il resto ce lo metti tu, perché allora ti viene la curiosità. Se invece vedi già tutto ostentatamente al centro del quadro, come accadeva con la prospettiva di Piero della Francesca, vedi un quadro rinascimentale, ma noi abbiamo fatto qualche passo avanti, rispetto al Rinascimento. Il Novecento ha cominciato a smembrare il quadro, Mark Rothko ha cominciato a disgregare il quadro, ha creato solo dei colori, però è indietro rispetto ad un Christo, perché Christo è andato avanti ed ha chiuso lo sguardo, e tu immagini quello che c'è dietro quello che lui ti nasconde.

TG: Federico, che musica ascolti?

FDL: Ascolto Nono, Berio, Maderna, ho degli amici compositori, Giorgio Netti, conosco Pierluigi Billone, conosco un sacco di persone di questo mondo, vado a sentire i concerti. L'altro giorno ad un concerto ho visto, pensate un po', Gillo Dorfles, 105 anni, non aveva neanche l'apparecchio all'orecchio, ci sentiva perfettamente. Guardava la locandina senza occhiali.



La madre di Federico in primo piano e due amici, prima della guerra

TG: Ti va di parlarmi di tua madre?

FDL: Sì, mia madre morì a 54 anni, nel 1968, dopo quasi 10 di malattia. Si ammalò a 45, era molto rigida, non volle curarsi, insomma s'è trascinata la sua malattia e morì. Lasciò la sua casa dove stava praticamente da sola. Mio padre faceva avanti ed indietro da Genova, perché lavorava lì, e andava da lei solo il sabato e la domenica. Lei viveva in questa casa con mia sorella piccola. Quando morì, mia sorella aveva 20 anni, quindi ha vissuto la sua adolescenza con una vecchia. Tu dirai che a cinquant'anni non si è vecchi, eppure mia madre s'era essiccata a causa della nefrite (sembrava una donna di ottanta). Mio padre si risposò un anno dopo la morte di mia madre e si disinteressò di tutto. Io e le mie due sorelle ereditammo la casa a Lerici, una casa abbastanza bella e grande (l'avevo progettata e costruita io, non ero ancora laureato), però nessuno di noi aveva i soldi per manutenerla o ristrutturarla, così è andata lentamente in rovina.


Una sedia ed una parete in una stanza nella casa di La Spezia dove Federico De Leonardis è nato

Ci rubarono tutti i mobili che c'erano dentro. I ladri arrivarono con un camion e ci portarono via tutto, compresa la scrivania con dentro tutte le fotografie, ma io, precedentemente, ne avevo raccolto un po' per farci un lavoro:  è dentro quello scaffale e si chiama: "Sonata in mi minore". È un lavoro che ritengo importante, perché il mio ragionamento sulla fotografia nasce da lì. Le fotografie che tu stai guardando sono i resti di un cassetto.
Il Caput mortum di tutto questo cassetto è il mio lavoro. Non un lavoro solo sulla mia famiglia, ma sulla storia della fotografia, dagli anni pre-bellici, addirittura pre Grande Guerra, agli anni post-bellici e termina nel 1968. Con l'artificio di creare un album per la raccolta di dischi (una volta si usava) ho voluto accennare alla storia di una famiglia borghese qualsiasi. Condensa tutto in un gruppo di 50 fotografie. È chiaro che potevo fare un'altra scelta e invece ho fatto quella. Negli stessi anni di "Sonata in mi minore" inizia il mio ragionamento sulla fotografia. Mia madre suonava il pianoforte e amava tantissimo Mozart e tra uno dei nostri dischi a 78 giri di un tempo, marchiati al centro: "Columbia", io ascoltavo la musica che lei mi proponeva, mi faceva capire la differenza tra una buona ed una cattiva interpretazione dello stesso brano musicale. Mia madre ce l'aveva col sentimentalismo, io l'ho vista piangere una sola volta, poco prima che morisse. Tu adesso, tirando fuori queste fotografie è come se frugassi in qualcosa che io ho già affrontato, elaborato e concluso. Certo, queste fotografie mi possono ispirare qualcos'altro, quindi in qualche modo le tengo sott'occhio, perché tutto nasce dalla memoria. Per me queste fotografie rappresentano dei ricordi, mentre tu ci vedi solo persone che non conosci, in un ambiente che non conosci. Erano fotografie su carta baritata Agfa Brovira o camoscio (questo tipo di carta non esiste più), piccole e con sfocature che potevano dipendere dall'obbiettivo o dal formato o dal tipo del negativo della macchina fotografica utilizzata. Attraverso questa sfocatura dei piani sentivi un'atmosfera particolare e tutto questo è molto importante, perché adesso la fotografia è diventata troppo precisa, a mio avviso quasi sempre volgare (e questo il mio album lo documenta: le fotografie scattate dopo la guerra sono volgari), troppo smaniosa di riprendere la realtà. Noi dobbiamo riprendere la realtà! Ma la realtà non esiste: è un'interpretazione tua. Che cazzo vuoi da me? Hai capito? È la fotografia che ha il difetto di tutta l'arte contemporanea e cioè d'essere troppo attaccata alla realtà, è un verismo sbagliato.


Ancora la madre di FDL.
 In psicoanalisi la madre è l'"oggetto" che apre il soggetto alle relazioni con il mondo

TG: Pensando all'arte moderna, io non capisco come l'astrattismo possa essere verismo...

FDL: (Sospirando) Chi te l'ha detto? Quale astrattismo? Quale? Tu vieni qua a chiedermi cose complessissime, l'arte all'inizio del '900, ma ancora prima, dalla fotografia di Nadar in poi, ha scoperto che esiste la fotografia. Gli impressionisti, in qualche modo prendono la fotografia e gli mettono il colore. Anche se non è proprio sempre così... Facevano anche quadri dal vero en plein air, certamente le ninfee di Monet sono state fatte dal vero, non sono una fotografia, però io sospetto che anche un grandissimo come Degas si servisse della fotografia. La fotografia ha cercato di rivoluzionare il mondo della pittura, Nadar era un ritrattista, a un certo punto ha messo da parte tele e pennello e s'è dedicato alla fotografia e il vero ritratto lo fa Nadar, non lo fa Manet, o Monet, perché il mezzo ti dà questa opportunità. Però la vera arte la fa Manet, non la fa Nadar. Ancora adesso ci sono dei bravi fotografi ritrattisti, però andiamoci piano... Tra un ritratto fatto da Tiziano, o da Tintoretto, o da Lorenzo Lotto ed uno fotografico io preferisco quelli fatti da questi pittori perché c'è qualcosa che la fotografia non coglie, anche se a volte basta cogliere vari momenti con più scatti e poi scegliere la posa migliore.



Due cugini di Federico De Leonardis alla Vedere di Lerici, un'immagine stile "I Vitelloni" che sembra ancora molto attuale
Due cugini di Federico De Leonardis alla Vedere di Lerici, un'immagine stile "I Vitelloni" che sembra ancora molto attuale

TG: per favore, spiegami meglio in che modo l'arte moderna è troppo realista.

FDL: Intanto definiamo meglio le cose, forse tu ti riferisci all'arte contemporanea.


TG: Certo.


FDL: La parola arte contemporanea è sbagliata. Siamo tutti costretti ad usarla, anch'io poco fa, perché l'arte è o non è. Per me è contemporaneo anche Vermeer, permetti? Io quando vado a vedere Vermeer ho un'emozione che non mi da nessuno. Da quando esiste la fotografia, la fotografia ha tolto all'arte alcune caratteristiche che essa aveva fino all'epoca di Nadar. La borghesia desiderava dei ritratti, chi glie li faceva? Canova è stato un grande scultore, ma faceva anche i ritratti ai borghesi dell'epoca napoleonica. Il ritratto era un veicolo attraverso il quale l'artista s'esprimeva e guadagnava. L'artista come lo intendiamo noi, modernamente, non esisteva prima. L'artista era un artigiano, era il fotografo dell'epoca e la fotografia non è nata con Nièpce, ma alla fine del 1400, con il verismo. Un Bronzino, un Pontormo, un Giovanni Sacchis da Pordenone, o chi vuoi nominarmi tu, non Piero della Francesca, perché la sua arte non è ancora “fotografica”, hanno riempito uno spazio di auto-rappresentazione richiesto dalla borghesia.


Appunti disegnati di FDL

E non solo loro, anche il clero richiedeva d'essere auto-rappresentato in quel tipo di società. Il verismo esisteva già in epoca romana e la scultura bicroma che rappresentava gli imperatori, piuttosto che i grandi senatori, è anch'essa una forma di ritratto. Non era così la scultura greca dell'epoca classica, che era verista ma con un altro concetto. Dopo la sua nascita, la fotografia ha dovuto cercare la sua specificità, qual'è questa specificità, rispetto all'arte che abbiamo conosciuto precedentemente? La fotografia ha una caratteristica che l'arte visiva non ha che è la capacità di cogliere l'istante. Click: quel decimo, o cinquecentesimo di secondo in cui accade qualcosa, come ci ha dimostrato benissimo Henri Cartier Bresson. Un gesto in un momento diventa capace di reggere tutta la composizione che altrimenti non ci apparirebbe interessante, ma perché è un istante. Chi capisce la fotografia ha capito questo punto fondamentale, io a scuola insegnerei questa cosa, o voi lo capite, oppure continuerete a scimmiottare il ritratto. È l'istante che comanda, ma questo è vero anche per quello che riguarda la fotografia documentaristica. Cinque o sei anni fa al Pac di Milano ho visto una mostra dei fotografi dell'Agenzia Magnum, venivano proiettati su una parete gli scatti eseguiti in Iraq, piuttosto che altrove e non si vedeva nessuna cura per l'inquadratura. Logico, sotto le bombe vedi i morti per terra, quello che conta è registrare i fatti, non riesci a gestire l'estetica della situazione, hai solo il tempo di scattare, dopo scegli. Il rapido susseguirsi di questi scatti proiettati ti dava l'idea della funzione di questo genere fotografico, per carità, perfetto. 

Roman Opalka
Roman Opalka

Che differenza c'è allora con il cinema? C'è differenza perché l'occhio fotografico non è l'occhio cinematografico che, in qualche modo, racconta; la fotografia astrae maggiormente e racconta per sequenze d'immagini, tanto è vero che un artista contemporaneo come Roman Opalka che ha lavorato praticamente solo con la fotografia, forse L'artista più ossessivo che io conosca, (Freud divide gli artisti in ossessivi, erotici e narcisisti, le solite categorie riassuntive di Freud, di cui non ci frega niente...) si faceva una fotografia al giorno davanti a una stessa identica parete, con la stessa identica inquadratura e dimensione. Dopodiché si sedeva al cavalletto e segnava dei numeri, uno dopo l'altro. Numeri consecutivi con lo stesso sfondo. 

Numeri di telefono nello studio di FDL

I numeri erano piccoli e lui vendeva queste opere, questa serie di fotografie. Ha continuato a fare questi lavori fino alla sua morte avvenuta 4 anni fa e tu vedi lo scorrere del tempo. Vedi qualche cosa che nega l'istante per captare la vita, la sua e la tua vita. Lui non ha fatto altro, come se l'arte si fosse ridotta semplicemente alla questione tempo, però questa è una questione molto importante, perché il tempo, oggi, è la vera discriminante tra gli artisti veri e gli artisti del cazzo! Mi spiego? E' la questione tempo. Caro Tony, io faccio il tempo! La fotografia, secondo me ha una terza valenza, oltre a quella del ritratto e della documentazione che è stata compresa da un artista come Ugo Mulas, piuttosto che uno come Enrico Cattaneo, che è un bravo interprete, pur non essendo bravo come Mulas, mi spiace per lui, ma è così. Entrambi questi fotografi sono riusciti a essere interpreti di altre opere. Tu provocatoriamente mi hai scritto che se la mia opera non viene fotografata non esiste, mentre io ti ho detto, mi dispiace esiste, perché basta che uno la veda con il suo spirito, questo gli permetterà, dopo, di andare e fare qualcos'altro, conservandone l'esperienza. Tu dici che il mio oggetto non esiste, se non trovo un interprete. Ti ho già spiegato che non è vero, basta che trovi anche un solo interprete, un solo osservatore in grado di captare il suo messaggio.

Dettagli insignificanti, ma veri

TG: Sì, va bene, ma tu la fotografi la tua opera e ne mostri le immagini quando poi quella non esisterà più.


FDL: Sì, io la fotografo perché così ne corroboro la memoria, cioè ne sostengo la memoria perché non tutti possono vedere la mia opera dal vero. Può andare distrutta, oppure non riesco più neppure a montarla. Vedi, in quella valigia lì ci sono tutti gli schemi su come dovranno essere montate tutte le mie installazioni, precisamente, anche dopo la mia morte, perché qualcuno leggendo quella roba lì sarà in grado di farlo. E così il mio "San Sebastiano", o la mia "Essere mare" saranno rimontati come devono essere. Mi è capitato di vedere delle installazioni montate male, perché c'è gente tipo Sgarbi che fa le biennali e non rispetta gli artisti. Io ho visto opere di Joseph Beuys montate malissimo ed io che conosco Beuys perché ho visto opere montate direttamente da lui dico: questo è Beuys, quell'altro non lo è. Forse questo è accaduto perché Beuys non ha trovato chi curasse questa fase del suo lavoro, dopo la sua morte. Tornando alla documentazione di un'opera d'arte visiva che effettua un fotografo, anche questa è un'opera d'arte visiva, la sua opera d'arte visiva, è il suo occhio. E' come la musica, il compositore compone, ma se non esiste l'interprete, quello che suona battendo la gran cassa o suonando altri strumenti, la musica non esiste. 

È come dici tu, il mio oggetto non esiste, se non trovo un interprete. Oggi c'è bisogno di questi interpreti, ma devono essere persone umili perché essi stessi sono artisti. Il lavoro di uno come Mulas va valutato, il suo lavoro è altrettanto artistico di quello di un Andy Warhol e forse anche migliore (Warhol per me è un artista praticamente solo grafico, mille volte meglio di lui uno come il primo Schifano però il primo ha fatto un ottimo lavoro cinematografico). 

TG: Va bene Federico, tu però fai una forma d'arte particolare che esce un po' dai soliti canoni, impossibile da fotografare nella sua completezza, difficile da catalogare e probabilmente unica, perché credo che solo tu ti esprima in questo modo, con questa tua arte che tu comunque documenti fotograficamente. Nel momento in cui tu elabori una installazione, come quella fatta in via Tadino, per esempio, o anche come quelle che tu hai qui nel tuo studio, poi tu la fotografi fissandola nel tempo. La reinterpreti tu stesso perché ti rendi conto che se tu non lo facessi quell'opera andrebbe perduta. Io, a questo punto, voglio sapere, anche se in parte mi hai già risposto, quella fotografia che tu scatti, fa parte della tua opera? O è una cosa distaccata?  E' arte essa stessa? Viene proposta alla vendita? Insomma, come consideri quella fotografia?


FDL: Ti spiego: intanto io mi occupo di documentare le mie cose personalmente lo faccio unicamente per una questione di tasca, perché se io devo chiamare Giorgio Colombo, piuttosto che Enrico Cattaneo, loro esprimono una loro volontà che magari non mi va bene e gli interpreti possono essere bravi o ciofeche. Io l'unica cosa che so fare con la macchina fotografica è l'inquadratura del mio oggetto, ma finisco per perdere l'interpretazione di quella cosa perché il mio occhio è viziato da ciò che ho fatto. Quello che io ho fatto, il mio lavoro, invece deve sollecitare un'altra persona, ovvero un interprete. L'interprete, se viene sollecitato, deve produrre qualcosa di più che si aggiunge a quello che io ho fatto, io vedo la mia opera attraverso i suoi occhi. Leggo quello che scrivo attraverso il lettore o attraverso l'attore che recita la mia commedia. Sento la mia musica attraverso un interprete, mi spiego? E magari scopro qualcosa che io, che sono sempre molto vicino alla mia opera, non avendo la giusta distanza, non riesco a vedere, perché l'opera non appartiene solo a chi la fa, ma appartiene anche agli altri. Io stesso certe volte rifiuto alcune mie opere e poi rivedendole, mi accorgo che ci sono cose che non avevo notato. Io, ma come, l'ho fatta io... E non l'ho vista? Come mai? Perché io sono quello che l'ha fatta, ma non sono l'unico interprete... Ad ogni modo, a differenza di molti artisti che eseguono una performance, o realizzano una installazione, io non propongo la vendita delle fotografie come "feticcio" dell'opera d'arte, ma vendo soltanto le mie "sculture", le mie "tagliatelle", le mie realizzazioni.



Una parte di un'opera di FDL


A parte la "Sonata in mi minore", ho fatto altri lavori usando la fotografia, vedi per esempio il mio "Autoritratto nello specchio convesso" o la mia "Spirale", ma lavoro principalmente sulla fotografia degli altri, perché una delle caratteristiche del mio lavoro è quella di non usare le mani, di non usare l'abilità, ma di servirmi del lavoro degli altri. Tutto quello che vedete qua è praticamente il lavoro di altri. Chi taglia il marmo, chi lo colpisce, chi usa quegli scalpelli e quelle funi, chi le usa? Io non lo so.

TG: Quindi il tuo è un lavoro di montaggio?

FDL: Il mio è un lavoro di sfruttamento dell'energia psichica e fisica, perché le due cose vanno assieme, degli altri. E anche mia. Quando io prendo questi martelli, questi cunei, queste mazze spezzate dalla violenza del lavoro, io prendo qualche cosa che non mi appartiene. Non è semplicemente un object trouvé, come faceva Duchamp, ma è un oggetto carico d'energia. Energia fisica. Dietro ad un martello o ad una mazza spezzata, sai quanti colpi gli hanno dato prima che questi oggetti si frantumassero? Vedi come deborda il cuneo sulla sua testa, no? Quanti colpi ha ricevuto per deformarsi? Queste cose tu le puoi vedere in un oggetto, trovato. Questa è energia? Sì, è energia.

TG: Trovato, ma ricercato...

FDL: Certo, io vado incontro a questi... incontri: so dove posso trovarli: gli umili, i mano-vali sono spesso il veicolo principale di quest'espressione di energia, pur non avendo coscienza di ciò. Ma anche questo non è del tutto vero: quando un operaio, un elettricista, un muratore qualsiasi, chiunque non sospetto di intellettualità, non condizionato da pregiudizi estetici, da "sovrastrutture culturali", entra da quella porta per caso (nello studio di FDL, ndTG) e rimane colpito o incuriosito, io dico di aver fatto centro. Infatti, prima d'ogni altra cosa lui vede il proprio lavoro, non il mio, il suo! E lo vede con altri occhi, i miei. L'arte contemporanea ha perso il contatto con la gente. Se io non colpisco la gente comune, io non colpisco nessuno. Questo, non per un fatto ideologico o perché sono rosso o buono o sentimentale o caritatevole, ma semplicemente perché so che queste persone sono in grado di capire, anche se non frequentano le fiere o le gallerie. Quando vedono le mie incudini deformate o i miei sacchi di cemento rappresi e consumati dall'acqua o le funi d'acciaio strappate eccetera sono davanti a ciò che vedono e maneggiano tutti giorni. In questo modo li porto a ragionare su se stessi, sulla propria fatica quotidiana: un attimo di sospensione dal lavoro, un attimo di preghiera. Tanto per intenderci sulla portata del messaggio: una volta esistevano i sacchi di cemento da 50 chili, dico una volta, ma non era tanto tempo fa: gli operai caricavano questi cazzo di sacchi di cemento da 50 chili per metterli nell'impastatrice. Provate a farlo voi per tutto il giorno! Venti, trenta sacchi al giorno fanno dieci, quindici tonnellate sollevate per un metro, fanno esattamente quindicimila chilogrammetri... mica male! Il peso, caratteristica specifica della scultura, come insegna anche uno come Anselmo e prima di lui Giacometti e prima di lui Michelangelo (non nel David però) e come pochissimi oggi anche fra i così detti "scultori" hanno capito, fa parte della vita, della precarietà e della fatica della vita, dell'architettura che abitiamo come del corpo che ci portiamo in giro. Non esiste fatica psichica che non sia stata prima anche fisica. Dimenticarlo significa tagliar fuori la gente, intellettualizzare e io odio gli intellettuali. Tu dici che io sono un uomo colto, che ho studiato ecc. Sì, parlo anche ai colti, a quelli che hanno visto molto, ma se guardando non hanno sentito anche il peso fisico di ciò che hanno visto, non serve, non hanno ricevuto il famoso colpo che infrange "il mare di ghiaccio" che avvolge il nostro foro interiore. Scusa questa piccola citazione colta da Kafka: a che serve la cultura altrimenti?

TG: Federico, su questo siamo d'accordissimo, però la tua arte è difficile anche da vedere e da fotografare perché quando tu mi parli di un piano spaziale che passa da due punti, tre punti, quattro punti, e così via, io me lo devo immaginare. Come faccio?

FDL: Per forza. Questo è il problema del verismo. Se io ti faccio questo affare (indica un porta nastro adesivo), io ho bisogno di te, perché quando tu guardi le mie cose, ho bisogno che tu le veda. Ma come fai a vederle, se tu vedi tutto? Se io, invece te ne faccio vedere solo una parte, tu dici: ma cazzo, manca quella parte lì... E la vedi tutta ugualmente, ma a tuo modo. Se tu spezzi una catenaria, una curva ad asse verticale formata da tutte le funi, catene, o quegli oggetti che non hanno momento flettente, ovvero resistenza alla flessione, ma hanno solo resistenza alla trazione, o alla compressione, come i fili della luce tra un palo e l'altro, una qualsiasi corda che gira è una catenaria. (Si chiama catenaria una curva matematica che è una parabola ad assi verticali, la cui ampiezza dipende dalla sua tensione agli estremi) ed io te ne faccio vedere solo alcuni punti, tu la vedrai lo stesso questa catenaria. Che cazzo te ne frega di vedere una catenaria? No! Perché se io ti faccio 3 funi d'acciaio rigide che s'impiantano nel muro e vanno tutte, con precisione, ad un punto dietro il muro, tu vedrai il punto dietro il muro.

Un tratto del lago d'Iseo, dove la famiglia di FDL sfollò durante la guerra.
Mi piace l'idea che anche in certi momenti si desideri scattare una fotografia che ricordi un momento, o un panorama gradevole della nostra vita.

Che cosa ti da questo punto dietro il muro? Ti da che tu lavori per vederlo e quando tu ti rendi conto che l'hai visto tu dici: io ho visto qualcosa dietro al muro. Questo è importante. Perché è dietro il muro? Perché dietro il muro ci sta la tua immaginazione e la mia immaginazione. Dietro il muro ci sta mia mamma. Morta, dietro ad un muro, non la vedo più.

Madre di Federico de Leonardis
La mamma da adolescente (a destra) di FDL, insieme ad un amica, a Roma 

TG: Il ricordo vale di più di quello che vedi effettivamente.

FDL: Esatto, l'emozione che io ti do facendoti vedere delle cose dietro il muro ti fanno ragionare su ciò che è dietro il muro. Questa è una cosa importante, non è una cosa qualsiasi. Se io ti proclamo un verso di Virgilio, spezzato, in cui c'è solo metà del testo originale, tu ricostruisci il verso: tum rauca adsiduo longe sale saxa sonabant, cum pater amisso fluitantem errare magistro sensit, et ipse ratem nocturnis rexit in undis multa gemens casuque animum concussus amici... Cioè, Palinuro finisce nel mare ed Enea sente il rumore contro le rocce nel mare, una cosa d'un'emozione straordinaria. Avete mai sentito il suono del mare quando batte sugli scogli? E qua si sente il suono, in questi versi: Tum rauca adsiduo... Tutto nelle "S": adsiduo ... sale saxa sonabant... Siamo al cospetto di un grande poeta che aveva capito che l'orecchio è tutto in poesia. E io cosa faccio? Faccio il mare, a tratti soltanto, il resto ce lo metti tu. E' alta cultura? Ma no, sono poeti che conoscono tutti, quindi, bassissima cultura...

TG: Però è difficile capire quello che c'è in campo e quello che c'è fuori campo... Quello che c'è all'interno della tua opera e quello che c'è ai bordi, come dobbiamo fare?

FDL: Eh no! L'arte moderna, non solo la contemporanea, fino ad oggi, ha corrotto il quadro con un male che si chiama centralità, chi ha posto al centro l'uomo? Piero della Francesca ha messo al centro l'uomo, il Cristo che viene flagellato sullo sfondo, mentre in primo piano vediamo i mercanti e lo ha fatto con quella che adesso si chiamerebbe la tecnologia, con l'invenzione della prospettiva. La prospettiva è un'invenzione del Rinascimento che ha aperto la via alla centralità dell'uomo, ma la centralità dell'uomo è una barzelletta: non esiste.



  Piero della Francesca - Flagellazione 1455-1460

Non c'è più. I veri artisti contemporanei hanno tolto la centralità all'uomo ed hanno detto: l'uomo non c'è più. C'è un'eventuale sua emozione in un determinato istante, se vogliamo. La fuga dal centro è una cosa molto importante, io ho scelto di lavorare con la mano sinistra, la mano del cuore, per fuggire da me stesso. Io lavoro fuori dal centro, verso i margini, in periferia. Tutto ciò che è vero, è vero perché avviene nei margini del campo visivo dell'occhio, nella percezione periferica. Nella percezione casuale e non volontaria. "Oh ma cazzo ho visto questa cosa qua..." Questo è importante, molto importante e coerente, io queste cose qui le ho scoperte personalmente con il mio lavoro, non le ho lette sui libri, capisci? Lavorare significa anche osservare le opere degli altri artisti, le opere che mi davano un'emozione. Vermeer è stato il primo ad inserire il tempo nell'arte. Come ha fatto? Te lo spiego in modo semplice. La luce con la quale lui dipinge i personaggi e gli oggetti in una stanza è la luce precaria, momentanea, che scaturisce dalla finestra nell'istante esatto in cui il sole viene opacizzato da una nuvola che passa, la stessa nuvola ritratta nel quadro dietro il personaggio, piuttosto che sul coperchio del virginale. Tu vedi lì la stessa identica luce, la stessa nuvola, e ti rendi conto che quell'attimo magico, sottolineato dal gesto della donna, dalla sua attenzione concentrata su qualcosa, poco dopo non ci sarà più. L'emozione di questa perdita si trasmette a te e resuscita l'emozione delle tue di perdite: tutto ciò che si nasconde dietro il muro e non c'è più.


Jan Vermeer - Una giovane donna in piedi davanti al virginale - Olio su tela, 1670-1672

E io non ne devo tener conto? Eh cazzo io sono qui perché le ho viste queste cose... Non posso dimenticarmele. Si vede solo quello che ti emoziona eh! Non te ne rendi conto, ma non ne puoi fare a meno, e non puoi fare a meno d'infilare quello che hai appreso in quello che fai tu. Non si può far finta di sapere che ci sono state queste novità nel corso della storia dell'arte e dell'uomo. A questo proposito, quest'anno a Lerici ho esposto un lavoro dell 1981 intitolato: "Autoritratto nello specchio convesso" . Il titolo l'ho rubato a un celeberrimo autoritratto che il Parmigianino si fece a 20 anni davanti a uno specchio appunto convesso. Ciò che noi vediamo in primo piano è la sua mano, poi dietro la sua faccia deforme, perché lo specchio convesso oltre a torcere il viso, rimpicciolisce e rende a occhio di pesce, si direbbe oggi, la parte della stanza dietro. In qualche modo lui, con splendida intuizione, ha deformato il ritratto diventato verista, fotografico, no? Lo ha fatto tramontare, ha fatto tramontare la ritrattistica, mentre la mano in primo piano, questa è la seconda genialata, diventa l'oggetto più importante della scena. Ma c'è di più: la cornice tonda munita di vetro e lucente, rispecchia la mano e la rovescia. Aggiungere discorsi è sporcare questo lavoro bellissimo.




Parmigianino - Ritratto entro uno specchio convesso, 1524 circa

Io che cosa ho fatto nella mia opera? Ho preso tutti i documenti della mia esistenza: l'atto di nascita, la prima fotografia fatta a scuola, le varie patenti, il libretto matrimoniale, il libretto di servizio militare, quando ero ufficiale - ho fatto l'ufficiale per guadagnare qualcosa - il libretto universitario. Mi ci è voluto parecchio, quasi 3 anni per raccogliere tutto, ma tu puoi vedere il corso del tempo e leggerci due violenze in questo. Dapprima la violenza del tempo su di te che da bel giovane diventi poi un vecchio e poi la violenza delle istituzioni che ti trattano come un numero. Questa è stata un'opera fotografica, non mia, perché le foto-tessere te le fanno anche le macchinette, fatta sempre con la mano sinistra e basata sulla fotografia. Io credo molto al valore documentaristico della fotografia scattata quasi per caso. 


La "Sonata in mi minore" di Federico De Leonardis"
La "Sonata in mi minore" di Federico De Leonardis"
(Fotografia di FDL)

TG: Ma il tempo poi rende ogni cosa interessante, ogni documento molto più importante. Anche questo influisce sul significato dell'immagine che è stata ripresa. Una fotografia scattata 70-80 anni fa dai tuoi genitori, allora non sembrava importante, mentre oggi rivista dopo tutto questo tempo assume valore. Non è così?

FDL: Ma sai oggi purtroppo, l'umanità in genere, mica solo io o te, ha un'ossessione che è quella della morte e la fotografia è funerea perché riprende l'attimo morto, tu un paio d'ore fa mi hai fatto degli scatti, ma io adesso, non sono neppure più quello. Sono un altro, e quando mi rivedo, dopo qualche anno dico: ma guarda, quell'istante non c'è più. Io se guardo le fotografie di mio figlio, partito per la Colombia che non rivedo da 3 anni, mi struggo...


TG: Beh, ma è quello il fascino della fotografia...

FDL: Infatti, la fotografia finge d'eternizzare un istante che non c'è più.

TG: Perché finge?

FDL: Perché non c'è niente d'eterno. Tutto quello che esiste muore, anche quell'individuo che è riportato nella fotografia. Noi rendendoci conto di questa cosa, realizziamo che quell'istante è morto e che noi siamo caduchi. E se non è oggi è domani, o dopodomani, ma è così. Allora, siamo qui per vivere, gente viviamo. Sentiamo, anche con la lingua.



Autoritratto nello specchio convesso Federico De Leonardis  Fotografia di FDL
Autoritratto nello specchio convesso Federico De Leonardis
Fotografia di FDL

TG: Cosa proponi?

FDL: Viviamo intensamente ogni cosa (e ride lungamente...).

TG: Certo, siamo d'accordo, ma noi cosa dobbiamo fare? Delle fotografie mentali con i nostri ricordi? È quello che suggerisci tu con le tue opere? Vederle per poi ricordarle?

FDL: Ma no, bisogna avere coscienza del momento presente e soprattutto del fatto che lo vivi come un'eccezione che ti viene concessa dalla vita. Noi siamo qui per caso, un uomo ed una donna hanno si sono incontrati con un atto d'amore (hanno scopato ndFDL), un certo spermatozoo è andato a finire in un certo altro ovulo, alla fine siamo qui, senza sapere nemmeno perché, non ce ne rendiamo conto. Fino a quando non abbiamo almeno 3 anni non abbiamo nemmeno memoria di questo fatto. Siamo qui, e poi ci scanniamo. Mah, dico, gente, siamo qui per volerci bene ed essere felici...


TG: Ma la tua arte, la possiamo considerare e vedere come un moderno mandala?

FDL: Non so nemmeno che cosa sia un mandala... (ride)

TG: Allora tu fai della scultura?


FDL: Come la chiami questa? (mostra il suo studio ndTG) Io lavoro sull'energia assente, anche le categorie, scultura, pittura, architettura, ormai sono cadute, io faccio delle installazioni fondamentalmente. Ragiono sull'architettura attraverso le mie installazioni che son fatte, diciamo, con materiale pesante, piuttosto che leggero, con comunque un'energia-peso che le sostiene, per me quest'energia è importante, se tu vedi i miei mucchi, i coni d'ombra, come li chiamo io, sono pesanti. Sai quella roba lì cosa pesa? Uno per uno io li ho portati giù dalle cave eh! A piedi, perché non puoi entrar dentro in macchina. Il peso è importante, parlavo del cemento prima, non a caso. Quel lavoro fatto con 5 cunei di ferro, io non lo posso nemmeno saldare da solo perché è pesantissimo. E si sente, guardandolo si sente, pensa un po!


TG: Hai degli assistenti che ti aiutano allora?

FDL: Non ho nessun assistente perché dovrei passare la mia vita con un altro e non si può. Mi piace star da solo, certo ogni tanto mi faccio aiutare. Se ho bisogno d'aiuto trovo chi mi da una mano, però avere un assistente che viene qui eccetera, mah, non lo so... È una cosa che non ho mai preso in considerazione, qualcuno me lo dice: cazzo alla tua età, potresti farti aiutare... 


 Federico De Leonardis nel suo studio, davanti ad un tratto di una delle sue "cuciture"
 Federico De Leonardis nel suo studio, davanti ad un tratto di una delle sue "cuciture"

TG: Come ti rapporti con gli altri artisti contemporanei?

FDL: È una questione di stima, se c'è qualcuno che mi piace, o anche qualcuno che ha fatto qualcosa di bello in passato, cerco di contattarlo, ma non si può essere sempre al top della propria condizione artistica. È faticoso sai, ti assicuro che è difficile. Ma non per il cemento che sollevi, è faticosa la produzione. Guardando gli altri, ho constatato che spesso ci sono delle défaillances, nel senso che la vecchiaia ti porta alla stanchezza, a ripetere te stesso, ma un artista non può mai ripetersi, anche quando fa le cose importanti, deve sempre cambiare, superarsi, ma non che debba, c'è l'esigenza di negarsi per poter fare di meglio. Negare la scultura che si ha appena fatto è giusto, altrimenti non si può andare avanti. Tempo fa, ho visto dei lavori di Kounellis in una grossa mostra allo spazio Ansaldo, lo spazio di Pomodoro, ma ha sbagliato, ha fatto un assemblaggio di opere sue del passato, ti ricordi le campane? Ha riprodotto in quell'occasione un'opera già fatta a Monte Marcello da Bolongaro in un giardino, una bellissima opera. Aveva fatto un pozzo e l'aveva riempito di campane, sai che le campane hanno una forma molto tondeggiante e s'incastrano facilmente una con l'altra. Tu vedevi questo pozzo pieno di campane, bellissimo, ma una volta ripetuto qui a Milano non funzionava. Ma anche altri lavori, non funzionavano. Questa è una mia valutazione, ovviamente.


TG: Quanto è importante lo spazio dove si colloca un'opera?


FDL: Lo spazio è molto importante, è essenziale, perché io lavoro su quello spazio. Per questo la geometria è importante. Fondamentalmente la geometria euclidea è astratta, e qui torniamo a quello che si diceva prima, io basta che ti faccia tre punti e tu vedi una linea. L'architettura è fatta di questa geometria. È fatta di peso, di energia presente, dev'essere una cosa precisa che non ti cada in testa, ha una certa altezza, una certa lunghezza, una certa illuminazione...


TG: Quindi non rinneghi il tuo passato da architetto e da urbanista? 


FDL: No, il mio passato è molto importante, io forse se avessi avuto un carattere diverso, adesso sarei un architetto.


TG: E della bellezza che cosa mi dici?

FDL: La bellezza è tutto. Uno vive perché c'è la bellezza, dalla bella donna, al bel bambino...


TG: Però l'arte contemporanea non è bella...


FDL: Tu adesso, mi vuoi tirare dentro un discorso terribile. Ma qual'è l'arte contemporanea? Quella che Sgarbi porta a Venezia? È quella? O quella che vedi nelle fiere? È Quella? E che cos'è? C'è, c'è... la puoi trovare anche lì, io una volta ho visto un'opera di Boltanski che è lontano da me più di mille miglia, uno che lavora anche con la fotografia, un grande artista, ho visto in fiera, vent'anni fa, 4 sue fotografie di luoghi dove erano avvenuti dei delitti. Le case dell'assassino. Sai perché erano belle? A parte la fotografia ingrandita, un po' sfocata che ti fa entrare nell'atmosfera interna, ma erano tutte delle fotografie fatte di sera, tutte con dei lampioni. Lui aveva preso delle lampade a filo molto semplici e aveva illuminato la superficie a vetro del quadro. La lampada, riflettendosi nel quadro, ti faceva entrare dentro questa situazione, Questi piccoli espedienti, o artifici, vengono proprio dall'arte di saper fare le cose: questa è la bellezza dell'arte contemporanea. Questo vuol anche dire che una persona così comprende che l'arte non è solo sua e che la lampadina da mettere lì ce la possono avere tutti ed è l'azione di un grande artista. Io non so cosa sono io, ma so chi sono i grandi artisti. E so cosa vorrei essere io.


TG: Ok, allora dimmi chi stabilisce chi è un grande artista. Le gallerie, i critici?


FDL: Ah, ah, tu mi provochi proprio! Ti darò una risposta secca. Gli altri artisti. E solo loro. Sono loro che rifanno loro stessi dopo questa grande emozione. È così che il linguaggio continua e si evolve. Poi, c'è un'espansione di questa esperienza e conoscenza che fa sì che adesso tutti capiscono chi è Michelangelo, anche se non tutti capiscono la Pietà Rondanini. L'arte è sempre, in qualche modo, anacronistica. Quando viene creata è avanti ai tempi, quando viene capita, è già tramontata, in parte, perché niente tramonta completamente e per me il classico è ciò che non tramonta.


Federico De Leonardis, 77 anni, artista
Federico De Leonardis, 77 anni, artista


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