Prosegue il reportage su Enrico Cattaneo, un uomo dalla grande umanità che ci sa raccontare, in maniera precisa ed emozionante la Milano degli anni '60 e '70. Non mancano i suoi rapporti con alcuni artisti con i quali ha lavorato ed arriva perfino a definire in modo semplice, ma convincente alcuni concetti artistici che continuano ad essere oggetto di dibattito per molti appassionati d'arte ed addetti ai lavori.
Enrico Cattaneo è un fotografo che ha una doppia valenza: può lavorare sia in abito documentaristico che creativo. TG
Enrico Cattaneo è un fotografo che ha una doppia valenza: può lavorare sia in abito documentaristico che creativo. TG
"...i miei scatti all'epoca non erano gran che, ma adesso non puoi fare la storia dell'arte senza le mie fotografie" EC
Enrico Cattaneo prima d'iniziare la lunga intervista con Tony Graffio, venerdì 19 febbraio 2016.
Enrico Cattaneo prima d'iniziare la lunga intervista con Tony Graffio, venerdì 19 febbraio 2016.
Tony Graffio intervista Enrico Cattaneo
Tony Graffio: Enrico
Cattaneo è un artista che negli anni 1960 e 1970 ha vissuto le
esperienze più belle che Milano ha saputo dare in quel periodo di
grande fermento culturale; oggi vorrei sentire da lui qualche
ricordo, ma da subito qualche dato anagrafico e qualche accenno agli
studi che ha fatto.
Enrico Cattaneo: Sono
nato il 4 settembre 1933, sotto il segno della Vergine che è un
segno particolarmente duro, di gente un po' rompicoglioni, con i
piedi sempre per terra...
TG: Un segno al quale
appartengono persone molto precise, vero?
EC: Sì precise e
precisine, per questo dico rompicoglioni, a loro non va mai bene
nulla: se un quadro è storto di un millimetro bisogna raddrizzarlo.
Se una fotografia ha un piccolissimo dettaglio fuori posto va
tagliato...
TG: Da che tipo di
famiglia provieni?
EC: Da una famiglia di
tecnocrati, quasi tutti ingegneri, io compreso. Ho fatto ingegneria
chimica con l'inventore della plastica, il Natta che poi ha vinto il
premio Nobel per l'invenzione del polipropilene che prese il nome
commerciale di Moplem. All'epoca, tutta la facoltà d'ingegneria
chimica era impegnata a dare una mano a questi ricercatori per le
sintesi dei composti derivati del petrolio che servirono per fare il
polipropilene.
TG: Il Moplem non è
durato molto, no?
EC: Perché dopo s'è
molto evoluto. In fondo alle pagine del mio libro di chimica si
parlava di come in avvenire ci sarebbe stata la sintesi dei materiali
acrilici, figurati te... Quanta strada è stata fatta da allora in
questa direzione.
TG: Possiamo dire che
agli inizi degli anni '60 Milano era molto attiva, non solo a livello
artistico, ma anche industriale, scientifico e culturale?
EC: Milano era la
capitale del mondo: tutto avveniva qua. Anche nel nostro campo che
poi divenne quello fotografico, Milano era certamente il centro
d'Italia e forse d'Europa. Tutta l'editoria più importante era qui,
tutte le industrie più importanti erano qui, perciò ti ritrovavi
attorno un mondo estremamente vivace ed attivo. Dal punto di vista
editoriale c'erano almeno due testate: “l'Europeo” ed “Epoca”
di Mondadori che avevano le loro squadre di fotografi di redazione stipendiati regolarmente che inviavano i loro scatti da tutto il
mondo: dal Vietnam, al Cile. Naturalmente, erano estremamente pochi
ed il nostro desiderio sarebbe sempre stato di diventare uno di loro.
TG: Ti interessava
viaggiare?
EC: Non l'avrei fatto per
il piacere di viaggiare, quella era una cosa che mi interessava
relativamente, io volevo viaggiare per fotografare. Non ho mai fatto
il turista in vita mia, non sono mai stato in un posto, tanto per
andare in un posto. Se sono stato da qualche parte l'ho fatto per
scattare delle fotografie.
TG: Come hai iniziato a
fotografare?
EC: Da noi in facoltà, a
metà degli anni 1950, c'era un laboratorio di fotografia
praticamente inutilizzato. Io e qualcun altro, praticamente occupammo
interamente questo laboratorio e lo trasformammo nella nostra camera
oscura e sala di posa. Qualcuno arrivava anche da altre facoltà per
utilizzare questo laboratorio. Ne ricordo due in particolare che poi
sono diventati fotografi professionisti molto noti Toni Nicolini e
Franco Vaccari. Entrambi studiavano fisica in via Celoria. In pratica
diventammo tutti fotografi professionisti.
TG: Tu però ti sei
laureato in ingegneria.
EC: Sì, però non ho mai
dato l'esame di stato perché non mi interessava più fare
l'ingegnere.
Milano nella nebbia 1959, dalle parti del ponticello di viale Melchiorre Gioia. Fotografia di Enrico Cattaneo esposta alla Ex Fornace nel 2015.
TG: Poi come hai iniziato
a lavorare professionalmente?
EC: Questa è una bella
storia! Un po' complicata eh! Facevo delle fotografie che forse hai
già visto, nelle periferie di Milano. Le atmosfere che ne
scaturivano erano abbastanza cupe, molto vicine al modo di lavorare
di una serie di pittori che in quegli anni venivano definiti realisti
esistenziali, erano Ferroni, Banchieri, Valieri, Guerreschi e qualcun
altro. Quando loro videro le mie fotografie incominciammo a
frequentarci, per sintonia di visione del mondo.
"L'artista può decidere di farsi manipolare da un gallerista fintanto che gli serve, ma quando non è più necessario non deve più farsi manipolare da nessuno" EC
TG: Una volta a Milano
era facile conoscersi? Frequentavate gli stessi ambienti?
EC: Beh, relativamente,
perché questa gente, vuoi per carattere, ma anche per ideologia, era
abbastanza chiusa. Era gente che non frequentava il Jamaica, per
esempio. Me compreso. Non ho mai frequentato il Jamaica in quegli
anni, perdendomi i Nucleari, perdendomi Manzoni, perdendomi Cy Tombly
e altri. Gente che non c'entrava niente con i nomi che ti ho fatto
prima, ma che hanno fatto la storia di Milano e la storia dell'arte
contemporanea. Io invece ero molto vicino ai realisti esistenziali.
Alcuni di loro avevano gli studi dalle parti di corso Garibaldi,
altri in via Procaccini; io ero lì pochi passi di distanza perché
ero nato in via Giordano Bruno, dietro via Paolo Sarpi. Questi
trentenni e quarantenni, forse, ma anche allora a quarant'anni erano
ancora ragazzi, figurati! Cominciai a frequentarli, ma io ero ancora
un fotografo dilettante, facevo ancora lo studente, però già
fotografavo queste cose. Andavamo tutti a mangiare in una trattoriain via Procaccini.
Opere giovanili di Gianfranco Ferroni, il pittore che insieme agli altri realisti esistenzialisti avevano realizzato dei paesaggi metropolitani di una Milano un po' cupa a cui si potevano ricondurre anche le prime fotografie di EC.
TG: Ti ricordi come si
chiamava questa trattoria?
EC: Da Forlè, lo ricordo
perché proprio tre giorni fa ho scartabellato un po' di cataloghi per
recuperare alcune informazioni, tra le quali c'era anche questo nome: ecco perché lo ricordo così facilmente.
Questa trattoria, oltre che essere frequentata da noi era frequentata
da Sandro Luporini che faceva e fa tuttora il pittore e soprattutto
da Gaber che abitava lì in via Londonio. Gaber un giorno convinse il
Luporini ad imparare a suonare la chitarra, a fare le canzoni. Da
allora tutte le canzoni di Gaber furono scritte da Luporini, poi
dipingeva ed anch'io ho appeso qua in casa mia dei suoi lavori. Dopo
te li mostrerò, anche se è un po' dura vedere tutto quello che ho
qua dentro questa casa (ride sommessamente, anche perché ha la voce
un po' debole).
Enrico Cattaneo è molto appassionato di musica Jazz.
TG: Tu vivi in questo
appartamento da tanto tempo?
EC: Dal '73 e anche
questa è una storia abbastanza curiosa.Questa era una casa celebre
in quegli anni. Perché in questa casa fu creata, inventata,
organizzatala settimana del Nouveau Réalisme che fu un grosso
avvenimento nel 1970, nel novembre del '70. Fu un avvenimento celebre
che è rimasto nella storia. Venne qui il gruppo raccolto da Pierre
Réstany 10 anni prima. La prima loro mostra venne presentata in una
galleria che si chiamava “L'Apollinaire”. Tra loro c'era Armand,
Rotella, Tinguely, César, Raysse e tanti altri. A Milano fecero grandi cose, anche in interni, dalla Rotonda della Besana ad altri
luoghi. Ci furono delle bellissime performance in esterni come quella
fatta in Espansione Galleria, Niki de Saint Phalle che sparava contro
le bottiglie in Galleria; Rotella che aveva cosparso di manifesti un
muro in via Formentini.
TG: In questo
appartamento viveva qualcuno di questi artisti?
EC: No, qui stava un
giovane editore e la sua compagna che erano molto amici di questi
artisti che andavano avanti e indietro da questo appartamento.
Tinguely è stato qui e sul terrazzo ci sono ancora degli scarti
delle sue macchine. Sul pavimento ci sono ancora i segni delle sue
martellate fatte nei momenti in cui sistemava le sue macchine, per
cui ogni tanto scassava anche il pavimento.
Difficile vedere Enrico senza la sigaretta in mano.
TG: Enrico tu fumi
davvero tanto...
EC: La mia sigaretta è
un classico, non credo che esistano miei ritratti dove compaio senza
la sigaretta in mano.
Tinguely in piazza Duomo, a Milano, nel 1970 per una sua famosa performance.
TG: Cos'altro puoi dirmi
di Tinguely?
EC: Ogni tanto lui era
qui con Niki, poi Tinguely organizzò la performance di questo grosso
fallo che esplose in piazza del Duomo creando polemiche infinite,
Christo ricoprì la statua di Vittorio Emanuele II in piazza del
Duomo, creando altre polemiche con i monarchici che chiesero ed
ottennero di far togliere la sua copertura dalla statua, con grossa
rabbia di Tinguely. Per consolare gli artisti, si concesse loro di
ricoprire il Leonardo da Vinci in piazza della Scala. Però era
un'altra cosa, il monumento a Vittorio Emanuele II era molto grande.
Restano di quell'evento delle fotografie molto spettacolari di Mulas
ed anche di Berengo, credo. Purtroppo, io mi persi quell'evento
perché ero impegnato da un'altra parte. Ritengo che quello sia un
grosso buco nel mio archivio.
Progetto per la performance del grande fallo esplosivo di Tinguely.
Sembra un rottame, ma è parte di un'opera d'arte dimenticata da Tinguely su questo terrazzo 46 anni fa.
TG: Quindi eri amico di
tutti, da Ugo Mulas a Gianni Berengo Gardin...
EC: Sì, Berengo lo trovo
ancora in giro adesso, lui, lo Scianna e tanti altri.
TG: Conoscevi anche
Cesare Colombo?
EC: Come conoscevo? Perché, è morto? (TG annuisce in silenzio e qui EC viene colto
dalla sorpresa e si dispiace molto). No! Quando?
TG: Circa 20 giorni, un
mese fa. Io l'avevo incontrato in una galleria in Svizzera per una
presentazione ad una mostra in ricordo di Max Huber fotografo. Avrei
dovuto andare a trovarlo, ma il giorno che l'ho chiamato non
rispondeva, poi ho capito perché. Lo conoscevi bene?
EC: Certamente, fin da
quando eravamo dilettanti, nel 1958-59.
TG: Ti senti di
raccontare qualcosa di lui?
EC: Era un fotografo
della nostra generazione, faceva delle cose leggermente diverse dal
gruppo che frequentavo che faceva del reportage sociale.
TG: Cesare faceva più
fotografia d'architettura.
EC: Sì, faceva
dell'architettura ed era più vicino ai grafici ed era partito
facendo il grafico all'Agfa, mi pare, in quei periodi ormai lontani.
Era anche un bravo organizzatore ed infatti organizzò una mostra
alla Rotonda della Besana, che se non erro s'intitolava: “I
fotografi di Milano”, o qualcosa del genere. Fu una mostra
importantissima con un grosso catalogo che è rimasta nella storia
della città. Anche attualmente Cesare era molto attivo e cercava
d'organizzare sempre delle mostre di un certo tipo.
TG: Suo padre era un
bravo pittore vero?
EC: Ecco, questo non l'ho
mai saputo, so che suo fratello maggiore, credo di un anno, o di due,
era mio compagno di scuola al Liceo Vittorio Veneto in piazza
Mentana. Lui ed il fratello abitavano lì vicino e mi pare facesse lo
scultore. Secondo me, il rapporto di distanza tra Cesare e suo padre
era dato da, come spesso accade ai figli di artisti, problemi di
relazione con l'arte. Cosa che lo portava ad avere difficoltà a
relazionarsi anche con persone che s'occupavano d'arte. Cesare ha
sempre avuto un certo distacco con gli artisti, escluso qualcuno al
quale si trovava vicino per ragioni politiche. Lui e Nicolini erano
abbastanza vicini a Treccani, per esempio, a Bodini ed ad altri
artisti figurativi e con una connotazione politica ben precisa. Erano
tutti del PCI, capisci? Pur con qualche distinguo, perché era già
passato il 1956 e con la storia dell'invasione sovietica in Ungheria,
a qualcuno venne qualche dubbio, ma i duri e puri, nonostante la
repressione armata, restarono tutti del PCI. Compresi i miei amici
realisti esistenziali che rimasero tutti nel PCI.
Fotografie 1958 - 1964
TG: Hai iniziato subito a
lavorare nel mondo dell'arte, o hai proposto qualche altro tipo di
fotografia?
EC: All'inizio, da
dilettante facevo altre cose, facevo dei paesaggi, facevo della
fotografia che per quei tempi era estremamente ai margini del
dilettantismo. Io non facevo il bel paesaggino, fotografavo
le discariche, in corridoio ne ho ancora qualcuna appesa che ho
scattato nel 1957. Le discariche per me avevano una connotazione
sociale e poi, sempre da dilettante, ho affrontato anche i primiscioperi dei metalmeccanici, nel 1961. Proprio qua sotto, c'era la
Breda che sfilava qua sotto, è stato un grandissimo sciopero contro
il governo Fanfani. In quell'occasione, in modo incosciente, non
avendo un grande giornale alle spalle che si occupasse di questi
temi, rischiavo per conto mio. E il rischio era grande perché allora
la polizia non usava il manganello, ma il calcio del fucile. Io
lavoravo come free-lance per qualche giornaletto milanese tipo “Le
Ore”, “Settimo Giorno”, “Il Corriere Lombardo” e qualche
altra testata. Ho pubblicato qualche fotografia su: “La Notte”,
perché allora c'erano molti quotidiani del pomeriggio che adesso
sono completamente spariti. Questo settimanale che si chiamava: “
Le Ore” divenne poi un giornale scandalistico, ma io allora non
c'ero più, per fortuna, era molto attento al nuovo modo di fare
fotografia che era molto diverso dalla fotografia che facevano i
paparazzi, anche se a Milano non ci sono mai stati i divi delle notti
romane.
Le discariche a cielo aperto fotografate nel 1957. Non si trattava di vere discariche, ma di luoghi dove la gente riversava i propri rifiuti illegalmente. Da notare l'assenza della plastica.
Resti di passepartout della Pico-Glass diventati una riuscita scultura appesa al soffitto.
TG:
A Milano non c'era Cinecittà...
EC:
Sì, infatti, a Milano c'era di tutto, ma mancava l'industria
cinematografica, sono stati fatti solo dei tentativi in questo
settore. Anche se a Milano sono stati girati film importantissimi,
come: “Rocco e i suoi fratelli”, “La notte” di Antonioni,
“Miracolo a Milano” di De Sica e anche i film di Ermanno Olmi che
inizio con “Il posto” che è una tipica storia milanese. Questi
erano i film che noi, parlo di noi perché io mi identificavo in un
gruppo di cui facevano parte i giovani fuoriusciti dal Circolo
Fotografico Milanese.
TG:
Eri amico di Donzelli?
EC:
Sì, ma Donzelli era di una generazione precedente alla nostra. Io
sto parlando di Fantozzi, di Rosa, di Cosulich e tanti altri, insieme
creammo il Gruppo 66. La nostra fotografia era guardata con molto
sospetto dai senatori del Circolo Fotografico Milanese, perché loro
facevano un tipo di fotografia molto leccata, molto
curata, molto elegantina...
Un trittico di Enrico Cattaneo realizzato con vecchi provini ritrovati in cantina. In una delle ultime aste di Finarte alcune opere di EC sono state messe in vendita a 7000 euro, ma non sono state vendute, perché a detta dell'autore erano lavori troppo difficili da capire.
TG:
Non scendevano in strada?
EC:
No, loro non scendevano in strada, non affrontavano le tematiche
sociali perché erano fuori dal loro mondo. Loro ci accusavano
innanzitutto di fare della politica, di essere troppo impegnati sia
politicamente, sia socialmente, per cui alla fine ci consideravano
dei provocatori che facevano delle cose abbastanza assurde, per
l'appunto molto vicine alla cinematografia neorealista di allora.
Loro invece inseguivano un tipo di fotografia pura che identificavano
nelle tematiche degli anni 1940, quella di Cavalli, di Crocenzi, di
questi fotoamatori evoluti che noi non accettavamo e ci facevano
ridere. Poi c'era Lanfranco Colombo che andava a fotografare in
Islanda, a fare cosa poi? Gli amatori allora, esclusa una parte di
studenti, o piccoli impiegati, appartenevano ad una borghesia
medio-alta, cosa che dava loro la possibilità di permettersi
apparecchi fotografici che noi ci sognavamo, tipo Linhof e Plaubel.
In più avevano anche i soldi per girare mezzo mondo. Al confronto,
molto meno di adesso, però rispetto a noi, loro potevano andare a
spasso per fare i safari in Africa o a fotografare i Geyser in
Islanda e quelle cose lì.
Ready made è l'ultimo lavoro esposto da Enrico Cattaneo. Le sue fotografie erano esibite sullo schermo di un computer e rifotografate. Gente da Biennale invece era un'esposizione la cui copertina del catalogo mostrava i pass delle 17 edizioni della Biennale visitate e documentate da EC.
TG:
Politicamente, qual era la tua posizione?
EC:
Eravamo tutti vicini alle posizioni del PCI, ma dubito che capissimo
qualcosa (sogghigna). Alla fine, noi facevamo i fotografi, non i
politici. Facevamo una fotografia socialmente impegnata. Ripeto,
quando io vidi gli scioperi, mi ci buttai a capofitto. Un lavoro che
mi diede un po' di celebrità, forse perché fu anche un po' provocatorio è stato quello sulla Prima de La Scala, nel 1960. Mi è capitato poi di esporre
contemporaneamente le fotografie degli scioperi insieme a quelle scattate la serata della "Prima".
TG:
C'erano già le contestazioni alla "Prima"?
EC:
Direi di no, le contestazioni arriveranno dopo. I fotografi che si
occupavano di queste cose, ripeto, erano pochissimi. I cronisti,
ovviamente c'erano, ma fotografavano il Presidente della Repubblica o il Sindaco. Quella volta a La Scala, io mi ero preparato comprando
una delle prime pellicole rapidissime dell'Agfa, credo fosse una
1200 Asa. Nonostante tutta questa sensibilità, io lavoravo ad 1/30
di secondo a 2,8 di diaframma. Per fare quel lavoro comperai anche un obiettivo usato dell'Exakta con un diaframma f 2,8. Prima invece,
mi pare che usassi una Contaflex o una Contarex che aveva un obiettivo
di apertura massima f 3,5. Quel mezzo diaframma in più mi era
estremamente utile per fare quelle riprese al Teatro alla Scala, ma
malgrado tutti gli accorgimenti, la luce era talmente scarsa che
dovetti sovrasviluppare tutto in maniera spaventosa e la grana andò alle
stelle. Dopo di che, feci delle stampe abbastanza grandi, cosa
che ancor di più mise in evidenza una grana esagerata. La mia
tecnica suscitò il disprezzo dei saloni del Circolo Fotografico
Milanese, ma anche l'interesse di altra gente. Io entrai a lavorare
a: “Le Ore” proprio perché videro questo mio lavoro fatto a La
Scala.
TG:
Tu in quell'occasione ti eri infiltrato, vero? Non eri lì per vedere
l'opera.
EC:
Sì, naturalmente, non avendo il pass giusto dovevo infiltrarmi,
allora arrivai lì con lo smoking e il farfallino e feci il
furbo, solo che il tutto dura abbastanza poco perché quando ti
scoprono ti buttano fuori. Ma se dovessi continuare a raccontarti
avventure di questo tipo staremmo qua fino a Natale (ride insieme a
TG).
TG:
Quali erano i soggetti delle fotografie di quella Prima a La Scala?
EC:
Io fotografavo le persone, anche se erano sconosciute, a me non
interessava chi fossero.
TG:
Dove hai mostrato le fotografie, dopo?
EC:
Una delle mie fotografie avrà vinto 20-30 primi premi in tutte le
mostre italiane ed europee. L'unica possibilità per far vedere
queste fotografie era di appenderle al muro e presentarle alle varie
mostre della Fiaf, a livello nazionale, o internazionale.
TG:
Quelle fotografie sono piaciute sia per i soggetti che per la tecnica
e per il tuo modo coraggioso d'inserirti in quell'ambiente?
EC:
Un po' per tutto, si perché tecnicamente il mio modo di lavorare
era una novità, poi perché il mio era un modo di lavorare
improbabile, per i miei colleghi di allora, o gli amici di allora. Ne
venne fuori un lavoro giudicato estremamente interessante.
TG:
Da lì sono iniziate ad arrivarti qualche proposta di lavoro?
EC:
Ecco, da lì, qualche giornale e qualche critico iniziò a tenermi
d'occhio ed io iniziai a pensare di fare il professionista. Quello fu
un lavoro che forse diede una svolta alla mia vita. A quei tempi, per
un professionista, l'ideale era di fare il fotoreporter e lavorare
per le grosse testate giornalistiche. Poi, invece io frequentai il
mondo artistico e da quell'ambiente non sono più uscito. Fotografavo
gli eventi, ma anche le opere degli artisti. In realtà non ero
felice di fare quel lavoro perché non lo ritenevo il mio mestiere,
ma poiché me lo chiedevano iniziai a fotografare quadri. Pian piano si
sparse la voce che ero bravo a fotografare le opere degli artisti,
così mi arrivarono altri lavori da fare. In più, costavo poco. Dopo
gli artisti, fui richiesto dalle gallerie d'arte, fino arrivare alle
gallerie più prestigiose: Marconi, Schwarz, poi Lorenzelli,
Sant'Andrea, Pellegrini e tante altre gallerie.
Cumuli di libri d'arte arrivati ad Enrico negli ultimi due anni.
"Non capire l'arte contemporanea è qualcosa di tipico, un tempo nessuno capiva i Gauguin, salvo pochissimi illuminati" EC
"Nell'arte contemporanea il gusto non è importante, quello che ti piace oggi domani mattina potrebbe non piacerti più; mentre se una ricerca o un'opera ti interessa oggi, ti interesserà domani ed anche dopodomani. Ciò che conta nell'arte è l'interesse visivo ed intellettuale." EC
TG:
Possiamo dire che quei lavori ti hanno portato il vantaggio di
arrivare a possedere opere di artisti molto quotati?
EC:
Beh, vantaggio forse, ma io ho consumato tante di quelle pellicole e
ci ho messo tanto di quel lavoro che forse se avessi comprato il
quadretto che invece mi hanno regalato mi sarebbe costato meno. Solo
che io non avevo i soldi per comprarlo. Avevo solo le pellicole per
riprendere e la carta per stampare.
TG:
Tu hai conosciuto tutti gli artisti che sono venuti a Milano per
esporre i loro lavori?
EC:
Sì, da Tinguely a Warhol.
Ritratto di Enrico Cattaneo sul terrazzo.
TG:
c'è qualcuno che tu hai apprezzato in modo particolare, o che
ricordi con più gioia?
EC:
Questa è una domanda che spesso mi viene posta. Quando ho cominciato
a lavorare con gli artisti, mi sono sempre ben guardato dal
giudicare, perché se lavori con un artista che non stimi, o che
giudichi, c'è il rischio che il tuo lavoro scada d'intensità e
perda interesse. Cosa che non va bene per un professionista, per cui
ho sempre trattato la scultura, o l'opera di un grande maestro
esattamente come quella del quadro o la scultura del giovane, ultimo
arrivato. A quei tempi l'Accademia di Brera era molto frequentata dai
giovani artisti stranieri che non sapendo a chi rivolgersi per farsi
fotografare i loro lavori, naturalmente capitavano qua da me.
Moltissimi sono spariti, ma tanti altri tra loro sono diventati
artisti importanti.
Cattaneo con il carretto abbandonato da Tinguely. Su questo terrazzo negli anni '60 e '70 si organizzavano feste gigantesche cui partecipavano i più grandi artisti dell'epoca.
TG:
Che cos'è l'arte visiva, secondo te?
EC:
Posso dire quello che faccio io, non giudico quello che fanno gli
altri. Credo che l'arte visiva sia un modo di raccontare che ha un
linguaggio che ciascuno personalizza. Quasi sempre, anche se in
maniera nascosta, si finisce per raccontare di se stessi. Questo è
qualcosa che capita a tutti gli scrittori, registi, poeti e anche ai
musicisti, perfino loro compongono qualcosa che riguarda la loro
autobiografia. Arte visiva, ma anche arte in generale significa
raccontare qualcosa che non è narrabile come facciamo adesso a
parole. E nemmeno lo si può fare con un pentagramma, o con un
computer. Si racconta per mezzo di segni perché il segno è
l'alfabeto del racconto e la sintassi, ciscuno se l'inventa per conto
suo.
Sulla stessa striscia di negativo un autoritratto di Enrico Cattaneo (compare anche sul libro pubblicato da Mudina: "Enrico Cattaneo, Lavori in corso") e un ritratto di Lucio Fontana che si liscia i baffi.
TG:
Quando Fontana ha fatto i suoi primi tagli sulle tele ha fatto una
rivoluzione, voi vi rendevate conto che stavate vivendo un momento
particolare?
EC:
No. (Pausa) Beh, non vale solo per Fontana che ha sconvolto un po' il
modo di raccontare, ritornando a quello che dicevamo prima. Fontana
ha sconvolto il linguaggio, il segno, l'alfabeto. Vale per lui, per
Manzoni, vale per Burri, cito soltanto i maggiori, ma ce ne sono
altri. E' difficile rendersi conto della validità di quel periodo
storico quando lo vivi dall'interno. Anche le mie fotografie
all'epoca non erano gran che, ma adesso non puoi fare la storia
dell'arte senza le mie fotografie. Ogni giorno escono libri di tutti
i tipi che riportano le mie fotografie. Naturalmente c'è il problema
del copyright che nessuno mi paga, malgrado le mie proteste...
TG:
Ti citano almeno?
EC:
Eh cavolo, almeno quello sì. Ovvio. E mi mandano dei libri che non
so più dove mettere. L'importanza di un momento particolare la
riconosci dopo 20 o 30 anni che l'hai vissuto.
TG:
Quando invece hai iniziato a capire che Milano non era più Milano,
che l'Italia non svolgeva più un ruolo culturale dominate e che il
paese si stava avviando verso la sua decadenza, a tutti i livelli?
EC: A
tutti i livelli non lo so, la gente ha continuato a lavorare, ha
continuato a produrre, a scrivere, a far musica, a dipingere o
scolpire, per cui da questo punto di vista la crisi non l'ho vista e
non la vedo, da questo punto di vista. La vedo però da un lato
economico che è un discorso collegato, ma non c'entra niente.
Questa è proprio la pipa disegnata da Magritte e l'orinatoio disegnato da Duchamp.
TG:
Spiegami meglio questo concetto.
EC:
Una crisi di tipo economico rallenta il lavoro dei mercati, rallenta
il lavoro dei critici, rallenta il lavoro dell'editoria. La crisi
economica ha molto inciso su di noi perché eravamo abituati alla MiIlano degli anni '70 in cui si facevano molte cose. Probabilmente,
per trovare un periodo peggiore bisogna pensare al periodo dei
surrealisti, a Parigi, a metà degli anni '30. Forse loro vivevano
situazioni economiche peggiori, ma ci erano abituati, perché erano
nati all'interno di quel contesto.Mentre noi abbiamo subito un
continuo decadimento, dagli anni '70 in poi. Tutto sommato anche gli
anni '80 e '90 sono trascorsi bene, ritengo che il grosso problema
economico sia quello attuale poiché anche le gallerie importanti
fanno fatica a sopravvivere. Ogni anno ci sono centinaia di
tentativi, da parte di piccole gallerie, d'inserirsi nel mercato, ma
con scarso successo. Gallerie che durano sì e no l'arco di una
stagione.
Definire Enrico Cattaneo un fotografo documentarista è riduttivo, considerando che egli ha contribuito a segnare il periodo più creativo dell'arte contemporanea.
TG:
Mancano i compratori, il mercato s'è spostato verso altri paesi.
EC:
S'è spostato il mercato perché non ci sono più grossi
collezionisti alle spalle che sostengono le gallerie.
TG:
Mancano gli industriali di un tempo?
EC:
Sì, è vero, mancano i soldi degli industriali, i soldi dei grossi
collezionisti, anche se io credo che negli anni '70, '80, '90 il
mondo dell'arte, dal punto di vista commerciale, era sostenuto dalla
media borghesia,che specialmente al sabato, riempiva le gallerie per
comprare le piccole opere, sia d'avanguardia che d'estrema
avanguardia.
TG:
C'era più amore verso l'arte e la cultura?
EC:
Esatto, c'era la disponibilità di qualche soldo in più, poi ti
racconterò un episodio che mi ha colpito molto, che permetteva ai
piccoli amatori d'entrare in possesso di opere, spesso per il
desiderio d'entrare in questo mondo per loro affascinante e per
qualcuno con l'occhio avanti, anche per ragioni speculative. Io
conosco un giornalista che ha sempre lavorato all'Ansa. L'Ansa era in
piazza Cavour e lo è tuttora. Fontana aveva il suo studio in Corso
Monforte, vale a dire a circa 200 metri di distanza. Ogni mese che
questo ragazzotto prendeva lo stipendio dall'Ansa passava da Fontana
a comprare un quadro. Magari un quadretto di 50X70 centimetri.
TG:
Perché gli piacevano?
EC:
Perché gli piacevano. Perché per lui questa era diventata
un'abitudine e tutte le volte lui comprava un quadretto che all'epoca
costava quattro lire. Nei primi anni '60, ma anche a metà anni '60
era così, non costavano milioni, come adesso... Fontana, tutto
contento, gli regalava anche qualche disegno... Quest'uomo, nel giro
di qualche anno, s'era fatto una collezione di 70-80, o anche 100
quadri di Fontana. Fai tu i conti di quanto ha guadagnato questo
tipo.
Nel grande appartamento in zona P.ta Venezia Enrico aveva attrezzato sia una sala di posa che una camera oscura. Cattaneo fotografava gli artisti in occasione di presentazioni di mostre, eventi e performance; non utilizzava mai il flash. Nella sala di posa fotografava solamente le opere d'arte.
TG:
Conosci Armando Marrocco?
EC:
(Sorride) Certo, figurati, da una vita, abbiamo vissuto un sacco
d'avventure insieme, anche strampalate.
TG:
Puoi raccontarmi qualcosa, un aneddoto, un episodio su di lui?
EC:
Ne ho tanti, andavamo spesso a fotografare i suoi lavori a Cascia,
al Monastero di Santa Rita. Lui aveva realizzato alcune delle
vetrate del Santuario e mi portava lì a fotografarle. Andavamo lì
anche d'inverno con delle automobili scassate che avevano problemi ed
ogni tanto facevano i capricci; andavamo a dormire nei conventi. Una
volta capitò che fotografammo la collezione delle suorine di
clausura del convento di Santa Chiara. Lì avevano delle opere di
Yves Klein, un artista devoto che le aveva donate alla Santa. Intanto
che noi stavamo fotografando i lavori di Marrocco, le suorine mi
chiesero di fotografare anche la loro collezione. Io fui d'accordo,
ma dissi che dovevo entrare da loro per fare queste fotografie. Ci
dissero che non c'era nessun problema. Iniziammo a fotografare i
lavori di Klein, ma ad un certo punto io m'innervosii perché ero un
po' stanco e dissi. “ Cristo, ma in questo posto qua non c'è un
whisky?!”. Le suore mi dissero che se volevo bere un whisky me lo
avrebbero portato subito, e fu così. Io e Marrocco sgranammo gli
occhi e cinque minuti dopo una suorina ci portò da bere. Noi fummo
ben contenti e pensammo a quello che ci stava succedendo...
TG:
Non se la passavano poi male eh?
EC:
Effettivamente, no. Mi è bastò esprimere un desiderio per vederlo
esaudire.
Parte dell'archivio dei negativi 35 mm contiene l'equivalente di più di 7000 rullini
TG: E
invece: Federico De Leonardis?
EC:
Ahia, l'argomento è un po' più complicato... Ma come mai tiri fuori
dei nomi così strampalati?
TG:
Non c'è qualcosa che ricordi anche su di lui?
EC:
Figurati! Lui è un ingegnere, credo che anche il suo modo
d'esprimersi sia sempre vicino all'ambientazione di oggetti nello
spazio. Si interessa di architettura d'avanguardia. Un giorno andammo
a fotografare una cartiera abbandonata, a Cairate, e naturalmente ci
lavorammo per parecchi mesi, tornando sul posto parecchie volte. Io
feci delle fotografie che poi lui utilizzò a suo modo per i suoi
libri ed io ne feci un lavoro mio con una trentina di scatti che ho
esposto più di una volta. Anche in epoche recenti. Anche al Photo
festival. Con De Leonardis facemmo anche un altro lavoro nel porto di
La Spezia dove demoliscono le navi. Un altro lavoro lo facemmo a
Massa Carrara in una gipsoteca. Abbiamo fatto parecchie cose assieme,
però con certe difficoltà, perché la sua personalità tende a
scontrarsi con la mia. In più abbiamo interessi diversi. In queste
cose qua io faccio il documentarista con il mio occhio, mentre lui
vede le cose a suo modo. Le fotografia che lui ha utilizzato erano i
miei scarti.
Una misteriosa artista americana alla quale EC era molto affezionato.
TG
Per un artista il carattere è importante, però essere troppo
egocentrico può essere controproducente. O no? Ti è capitato altre
volte di scontrarti con qualcuno?
EC:
Quasi mai. Sono sempre andato d'accordo con tutti. Ho tanti nemici
non dichiarati, ma col De Leonardis qualche battibecco l'ho avuto. Ai
miei assistenti o ai miei collaboratori insegno, come prima cosa, che
loro devono considerarsi i più bravi del mondo. Mi spiego meglio: se
un artista non è egocentrico e talmente pieno di sé da non
ritenersi il più bravo del mondo può cambiare mestiere.
TG:
E' anche un modo per superare le proprie insicurezze?
EC:
Ovvio, devi superare le insicurezze, ma devi auto-convincerti di fare
un lavoro che gli altri non sanno fare e che tu sei l'unico che può
farlo. Questo è qualcosa che vale per un sacco di gente, da Picasso
in giù, figurati! Anche il mio amico Franco Ferroni era così, se tu
gli dicevi che un suo quadro non ti piaceva, te lo rompeva in testa. Ci sono artisti che quando arrivano sui 60-70 anni e capiscono che non ce l'hanno fatta s'incattiviscono e diventano intrattabili. Non puoi illuderti per tutta la vita di essere qualcuno, se poi non lo sei veramente.
Il lavello della camera oscura. Nel 1968-1969-1970 EC ha stampato alcuni lavori di Man Ray. Proprio in questi giorni Enrico ha ritrovato alcune fotografie del maestro americano che ha incorniciato ed esposto nel corridoio del suo appartamento.
In camera oscura. Enrico Cattaneo mi ha raccontato che Man Ray anziché comprare le cartoline ritagliava le sue fotografie ci scriveva dietro e le spediva agli amici. Qualcuno le ha poi raccolte, e punzonate per archiviarle, per questo adesso alcune di queste cartoline presentano un paio di fori.
TG:
Enrico, continui ancora adesso a fotografare?
EC:
Purtroppo, no. Vedi, la borsa è ancora lì pronta con una macchina
fotografica dentro, ma sono tre mesi che non la tocco. E sono tre
mesi che non stampo una fotografia in camera oscura.
TG:
Come mai?
EC:
Ho qualche problema fisico e mi affatica molto stare in piedi. Dicono
che fumo troppo, cosa che può essere vera.
TG:
Ti pesa stare fermo senza lavorare?
EC:
Il mio lavoro mi manca da impazzire. Chi non mi vede più in giro mi
chiede se sono depresso ed infatti mi viene un po' l'angoscia a non
fare niente. Io non ho mai avuto una
lira in vita mia, figurati adesso che non lavoro.
Un altro archivio è quello che contiene i negativi dei formati più grandi, dal 6X6 al 13X18. I provini a contatto 35mm sono conservati nei raccoglitori sopra al mobile.
Tutti i diritti riservati
Finalmente un'intervista che valorizzi Enrico per la sua storia, professionalità e sensibilità !!!
RispondiEliminaAnche se un sorriso in più ci voleva Enrico ... super complimenti!
Finalmente un'intervista che valorizzi Enrico per la sua storia, professionalità e sensibilità !!!
RispondiEliminaAnche se un sorriso in più ci voleva Enrico ... super complimenti!