"La vera opera d'arte sfugge a queste banali spiegazioni, si serve di simboli, come si serve d'altro." Federico De Leonardis
Anonimo su un muro del FOA Boccaccio di Monza
Premessa di Tony Graffio
Il percorso che stanno affrontando alcuni scultori è molto coraggioso, tra di loro troviamo gli artisti che propongono il linguaggio più svincolato dai materiali e dalle tecniche, molti prendono spunto dai vari elementi che li circondano, in modo spesso un po' destabilizzante, come abbiamo visto nella precedente pagina di questo sito, ma rifiutano ogni legame con il mondo inconscio dei simboli.
L'arte contemporanea s'è liberata da tutti gli schemi del passato: non ci sono più canoni estetici, né regole; non c'è più alcun ritegno nell'appropriarsi del lavoro altrui o nel rappresentare le brutture e le bruttezze della nostra società in questa età di decadenza. Ma esistono dei segni che sono ancora presenti all'interno dell'opera d'arte e che sono riconoscibili da tutte le culture? E perché?
Può l'arte liberarsi dai simboli oppure utilizzarli a prescindere dal loro significato? Su questo punto, come spesso accade, mi sono trovato piuttosto in disaccordo con l'amico Federico De Leonardis, così l'ho esortato a spiegare le sue ragioni su queste pagine che già hanno ospitato più volte il suo pensiero. TG
DECLINO (Premessa di Federico De Leonardis)
Questo famoso rapporto con l'altro da
sé: vox clamantis in deserto. Ci sono in giro molti Sant'Antoni
blateranti, fra cui il sottoscritto; ogni tanto, tanto, salta fuori
qualcuno a dirti, privatamente, ho sentito: è un momento
eccezionale, corroborante, ti incoraggia a continuare.
Ma non sono tutte illusioni? Non è
meglio prendere una canna e sporgersi su uno specchio d'acqua a
cercare che abbocchi un pesce? Non è meglio distendersi a una
partita a bigliardo o a scopone con qualche amico? Le variabili sono
infinite, secondo l'indole e la storia dell'interessato e ci sono
molti modi di affrontare il declino inesorabile verso quel terribile
momento che decreterà forzatamente il nostro stop.
Io penso però che, accettata negli
umani in età non più giovanile l'esistenza della coscienza del
declino, i modi a cui ho accennato parlando di evasioni comuni siano
veramente inefficaci: prima o poi dovremo affrontare il punto.
Oddio, chi non si masturba qualche volta un poco? E' tanto
rilassante, stende i nervi. In certi casi è addirittura
consigliabile: guardi dalla finestra e vedi le solite cose che
rimarranno immutate dopo te, un uccello attraversa il tuo campo
visivo, la luce declina lentamente a occidente, ti raggiunge il
rumore di un autobus che passa sotto. Tutto è così rassicurante,
così scontato. Tra un terremoto e l'altro la vita continua coi suoi
ritmi, la gente si accoppia e fa figli, la madre è soddisfatta, il
bambino sorride ecc ecc. Se guardiamo il Sud il mondo gira come al
solito in senso antiorario, le stelle rimangono più o meno nella
stessa posizione e ogni notte fanno un piccolo passettino, troppo
piccolo per registrarlo, ma il fatto, così dicono, che il prossimo
anno lo stesso giorno le troveremo nella stessa posizione è
rassicurante. Non possiamo farci niente, siamo assolutamente
impotenti, la passività e l'impotenza ci dominano e ci acquietano.
Perché darsi tanto da fare, perché trovarsi tutti i sacrosanti
giorni in quel luogo tutto sommato abbastanza scomodo, freddo, sempre
lo stesso, a fantasticare, spostare oggetti, spaccarsi le mani per
modificarli? Pontormo aspettava sera nel suo fondo fiorentino gelato
per andare a mangiare con Bronzino: era un momento di sospensione
della sua terribile ossessione: l'intrico di gambe e braccia del
Diluvio che i monaci bacchettoni di San Lorenzo seppellirono sotto una
mano di intonaco un secolo dopo.
Pontormo
Ecco dove va a finire il nostro darsi
tanto da fare. Ma questo non ci induce a smettere: non c'è, o per
lo meno non l'ho io, una spiegazione all'ansia del fare, del
significare, del comunicare all'altro da te, l'altra metà dell'anima
come diceva Jung. E' esattamente come la questione dell'esistenza di
Dio: tanti si sono arrabattati a cercarne le prove, con scarso
risultato. Alla fine constatiamo che l'umanità si può dividere fra
quelli che hanno la fede nella sua esistenza e quelli che non l'hanno
e il fatto che io non impieghi la maiuscola nel pronome possessivo
dice chiaramente a quale delle due schiere appartengo, a quella
destinata all'onda bruna, diretta “alla riva dannata ch'attende
ciascun uom che Dio non teme”. L'eventualità di essere spedito
all'Inferno, niente popo' di meno che da Dante, non paralizza il
sottoscritto. Al contrario, lui si alza tutte le mattine e
diligentemente, senza ubbidire ad altro padrone che se stesso,
finisce per spostarsi nella ghiacciaia di cui parlavo prima per
arrabattarsi anche lui a significare, comunicare ecc ecc. Perché?
Non c'è una risposta soddisfacente e
non mi interessa nemmeno cercare di darla. Forse un'indizio,
un'abbozzo di spiegazione lo si può trovare per tutti, anche per
quelli che sbandierano la loro fede in Dio, se si sostituisce a
quest'ultimo soggetto, anzi Soggetto, uno altrettanto generico e
improbabile, ma forse del quale è più concreto (non dico più
facile) provare l'esistenza. Se non altro perché qualche volta salta
fuori quel qualcuno che al tuo clamore risponde con il segnale di
aver sentito. Quel qualcuno appartiene appunto al nuovo soggetto che,
ormai tutti l'hanno indovinato, si chiama umanità. E la parola,
faccio notare, va scritta rigorosamente con la minuscola, perché
trattare da soggetto importante e particolare una schiera di
individui da poco emancipatisi dalla loro origine perché hanno
trasformato le loro braccia inferiori in gambe, è quanto meno
azzardato: l'uomo di Cro-Magnon, non si sa se perché più
intelligente o più crudele (ma forse per ambedue le ragioni, in
quanto crudeltà e intelligenza sono nella maggioranza dei casi
sinonimi), ha estinto oltre a moltissime specie diverse dalla sua
anche alcune antropomorfe con le quali ha convissuto per migliaia di
anni e che praticavano come lui il culto dei morti, i propri (se
questa può essere una spiegazione dell'inizio della spiritualità). FDL
ARTE, SIMBOLO E MORTE
Ma perché questo lungo cappello per
parlare di simboli?
Per non essere superficiali: ora possiamo tornare
a noi, all'umanità sopravvissuta. Nessuno può ignorare l'importanza
anche per noi moderni di quegli strani oggetti che per i greci
rimandavano a un patto condiviso (si spartiva spezzandolo un
qualsiasi intero a suggello dell'accordo). La parola da cui deriva
usa il prefisso sun (insieme) ed è questo a rivelare l'importanza
dell'operazione. Infatti se i componenti del patto sono molti la
parola che finisce per sostituire il frammento dell'oggetto acquista
importanza. Ma è una parola appunto, in una lingua particolare e in
un contesto o per lo meno in una civiltà particolare, cambiando la
quale perde il suo significato. A volte però esistono oggetti che
anche per civiltà e lingue diverse rimangono simbolici, che so per
esempio una croce è un simbolo sia per la civiltà cristiana che per
quella musulmana, anche se dimostra antagonismo nei confronti della
prima. Josef Beuys ha usato spessissimo la croce, quella rossa della
famosa compagnia che viene in aiuto dei malati e non ha attribuito
alla stessa nessun significato particolare oltre al fatto di indicare
l'istituzione.
Beuys
L'indicazione è importante, ma non
universale, nel senso che per una tribù dell'Amazzonia non significa
niente. Per essere chiari un segno può rimandare ad altro, ma non
per questo è universale. La croce rossa di Beuys indica esattamente che
si tratta di medicina, di cura, di salvezza fisica e se uno conosce
la sua storia capisce che non rimanda a nient'altro che alla sua
gratitudine per esser stato salvato durante la guerra e curato. Ma
l'uso della croce in lui ha anche un altro significato. L'umanità è
malata, lo è soprattutto l'umanità della sua nazione (era tedesco),
malata per quanto era successo prima della catastrofe finale e malata
dopo, quando lei, che credeva di imporre la sua supremazia
sull'Europa, è stata addirittura divisa in due: il lamento
dell'artista è in tutte le sue opere e la croce, che lui usa
spessissimo, può essere considerata importante, ma solo per la
nostra civiltà. L'universalità del messaggio di quel grande artista
che è Beuys si rivela in altro modo che attraverso un banale richiamo a
una struttura sociale, onorevole quanto si vuole, di soccorso ai
malati, la Croce Rossa. Come vedremo in seguito infatti, è forse un
insieme di fattori quelli che lui adotta per esternare il suo
messaggio. Parlo del suo lavoro perché mi sembra particolarmente
adatto ad affrontare la questione del simbolico in arte.
Bisogna però prima spiegare un poco
cosa si intende per universalità. Quando vedo i giapponesi, che alla
morte di un amico o di un congiunto accendono candeline davanti
all'immagine del defunto e si mettono a chiacchierare su di lui, penso
al culto dei morti dei poveri Neanderthal, che non hanno saputo
opporre alla forza intellettuale dei Cro-Magnon qualcosa che evitasse
la propria estinzione.
Mare di Federico De Leonardis
Forse l'universalità dei simboli che
accompagnavano le loro inumazioni era debole, nel senso che forse il
Sapiens- sapiens, è un'ipotesi, non riusciva a trovare una
condivisione sufficiente con il Neanderthal: un cane che dimostra una
fedeltà al padrone che nessun umano riesce a eguagliare, rimane un
cane per mille altri motivi e se dobbiamo scegliere tra lui e nostro
figlio non abbiamo esitazioni. I Neanderthal per il Sapiens
erano, come gli ebrei per i nazisti, semplicemente degli animali, dei
diversi (il lamento del tedesco Beuys, ex ufficiale della Wermacht,
ci insegue).
In parole brevi la candelina dei
giapponesi, una luce che si consuma lentamente durante la chiacchiera
e lo scambio di cibo, è un simbolo importante non solo perché è la
stessa che mettiamo (mettevamo per la verità, perché dopo migliaia
di anni i preti hanno deciso di sostituirle con delle candeline
elettriche, che consumano solo forza lavoro, direbbe Marx) davanti
all'immaginetta del santo di turno nelle nostre chiese o ai piedi
della bara del defunto, ma perché richiama la morte, che è
universale. La stessa che, uccidendo un pollo, evocava Senofonte (un
filosofo oltre che un capitano di ventura) per scrutare nelle sue
viscere il consiglio su quale via avrebbe dovuto prendere il suo
esercito (ed è riuscito, in effetti, a portarlo a rivedere il mare, Talassa in greco).
Ossa di Shelley di Federico De Leonardis
Sarà un caso questa ricorrenza della
morte quando si parla di simboli? Forse il vero simbolo è solo
quell'unico che evoca la morte, perché solo lei, solo la sua
evidenza è universale; e la candelina che si consuma può benissimo
esserlo, proprio perché a un certo punto si spegne, spegnendo il suo
corpo, il feticcio che vorrebbe rappresentare. Ma questo è un
discorso troppo difficile perché qualcuno possa seguirmi. Qui sono
veramente in deserto.
L'arte, quella per la quale sono stato
invitato a parlare di simboli, l'arte visiva, fa spesso uso di
oggetti e di immagini che riassumono, sintetizzano la complessità
del suo messaggio e hanno una certa più o meno estesa condivisione.
Lo faceva in passato (la Melanconia di Durer, per esempio, ne è
stracarica, Gli Ambasciatori di Holbein la supera per numero
di rimandi), soprattutto nelle epoche di ridimensionamento della fede
religiosa e di conquiste laiche. Per rimanere al secolo scorso, dopo
il trionfo del Surrealismo (parlo di arte del Novecento, perché
considero il Simbolismo un rimasuglio del tardo romanticismo
ottocentesco), l'arte è ricorsa continuamente all'uso di simboli,
profani e laici per lo più, credendo con questo di elevare il
proprio messaggio a una maggiore universalità. Il fatto è che il
simbolo non si possiede, non lo si può inventare, esiste ed emerge
eventualmente da un'opera d'arte quasi all'insaputa del suo stesso
fattore, come la memoria appunto, e non è comunque determinante. E
poi è e deve rimanere involontario, non come in Magritte o in Dalì,
che pescano coscientemente (questa è la contraddizione) a piene mani
nella “letteratura” dei simboli (sanno di intelletto, di ricerca,
nella migliore delle ipotesi di sogno, quando si sa, almeno lo sanno
tutti quelli che hanno letto qualcosa di Freud, che il Traum si nutre
sì di immagini, ma soprattutto di parole legate alle immagini).
Boltanski
Per approfondire ulteriormente il
concetto di universalità porterò l'esempio di un lavoro di
Boltanski, in cui una lampadina appesa al centro di un lungo
corridoio vuoto e buio si accende, per spegnersi subito dopo al ritmo
del battito del suo cuore.
La grandezza di quell'opera consiste
fra l'altro nel fatto che tutti si sono soffermati almeno una volta
ad ascoltare il leggero colpo che dà il proprio e questo ha
rimandato subito al pensiero che un bel momento questo lieve rumore
ossessivo e regolare cesserà. Perché sappiamo benissimo che tutti
noi avremo una fine e che il declino, di cui parlavo all'inizio e che
forse è il lento rallentamento o affievolirsi della luce della
lampadina, ne è l'anticamera.
Quindi la lampadina è un simbolo? Non
è importante se lo sia o meno, pensando agli Inuit o ai popoli
dell'Amazzonia o agli aborigeni australiani certo non è un'immagine
universale. La vera opera d'arte sfugge a queste banali spiegazioni,
si serve di simboli, come si serve d'altro. Riprendiamo a guardare i
lavori di Beuys: lui porta sempre con sé un bastone, spesso una
coperta di feltro e un triangolo sonoro che richiama facilmente
l'immagine della sbandierata Trinità, ma questa vistosa coreografia
sciamanica è solo necessaria a creare un'atmosfera ancestrale, non
dico dell'epoca dei Cro-Magnon e dei Neanderthal, ma molto vicina a
loro: forse per curare la nostra civiltà dobbiamo tornare alla loro
semplicità, allo strame su cui ci corichiamo insieme al coyote1,
condividendone almeno per un poco la vita.
Beuys
Simboli gli elementi di cui si serve?
Io li chiamerei piuttosto strumenti coreografici e lui stesso ne è
cosciente vista la cura quasi maniacale dell'immagine stessa, della
sua composizione astratta, dell'equilibrio visivo fra i pieni e i
vuoti delle sue immagini. Potrei continuare all'infinito a descrivere
altri suoi lavori, ma voglio convincere chi mi ha seguito fin qui
della scarsa importanza del simbolico nell'arte, anzi del grande
equivoco che hanno alimentato dal Surrealismo in avanti, portando
altri esempi di grandissime opere d'arte. Giacometti, per esempio, a
un certo punto della sua vita abbandona quel Movimento di cui faceva
parte, e che gli aveva procurato un grandissimo successo, per
mettersi a fare figurine magrissime, scavate, s-colpite (con la mano
destra, la sinistra aggiungeva creta che la destra scavava), fantasmi
minuti che ricordano i bronzetti dei nuraghe sardi, opere che ci
arrivano dalla preistoria.
Giacometti
Cercava un nuovo simbolo o piuttosto
aveva capito che continuando a maneggiare quelli che gli metteva a
disposizione la Letteratura del Surrealismo non sarebbe arrivato da
nessuna parte? Il ricordo di quelle antiche divinità giunte da
lontano (sempre di fronte alla morte o per lo meno al declino,
compare un Dio), ancora presenti nel suo come nel nostro foro
interiore, come in quello di tutti, compresi i giapponesi cui ho
accennato, forse è qualcosa di più solido, di più profondo delle
invenzioni fantastiche e un po' provocatorie di un Magritte, i cui
cappelli bombati sono già tramontati con la piccola borghesia del
secolo ventesimo.
Magritte
Ma sono un simbolo?
Ecco che senza neanche nominarla, ha
fatto la sua comparsa la radice di quell'universalità che ho
scomodato prima: l'inconscio collettivo. Giacometti non ha inventato
niente, non lo ha cercato. Gli è bastato frugare dentro se stesso
per riportare alla luce della coscienza contemporanea una verità
antica scaturita millenni fa di fronte alla coscienza della morte.
Allora l'arte è solo un esorcismo del
grande momento? Gli esempi riportati sembrerebbero confermarlo. A
parte il fatto che qui sono stato chiamato a disquisire sul simbolo,
en passant possiamo rispondere di sì: l'arte è un'operazione di
liberazione, di consolazione, di sollievo.
Ma torniamo a noi. Le sculture di
Giacometti sono simboliche? Non lo sono affatto nel senso in cui lo è
il bastone dello stregone messo al centro del drappo nero le cui
diagonali sono riempite di teste di leopardo. L'esorcismo li
accomuna, ma l'inconscio li separa. Il drappo di cui parlo, da me
visto al Guggenheim di New York in una mostra di feticci africani, è
un'opera d'arte? Niente affatto, è un'opera pratica, senza nessun
mistero, senza nessun altro scopo che l'esorcismo della paura e la
conferma di una gerarchia di comando. Nessun segno universale.
Il viandante e la sua ombra di Federico De Leonardis
Deve esser chiaro una volta per tutte
che l'arte è solo un segno universale, l'Onda di Hokusai, come il
Diluvio di Pontormo, come le spirali di Richard Serra sono segni
universali, valgono per il Cro-Magnon di tutte le latitudini e
longitudini e non rimandano a nient'altro che a se stessi.
Federico De Leonardis
Hokusai
1. Sceso dall'aereo e
caricato in barella su un'ambulanza, l'artista si è fatto
trasportare a sirene spiegate in una galleria di New York, dove per
un mese ha condiviso lo spazio con un coyote.
Nessun commento:
Posta un commento