"Chi compra arte non è l'amante dell'arte, ma chi deve avere quel segno artistico come segno finanziario." Annamaria D'Ambrosio
Torno a parlare con Amy D, la gallerista con la quale avevo già avuto un incontro nel novembre del 2016 per parlare dei nuovi materiali per gli artisti. Questa volta affronto con lei in modo più specifico alcune questioni che riguardano la fotografia e l'economia. Come già era capitato parlando con Fabio Castelli, cerco di capire come si possa distinguere la fotografia d'arte dalla fotografia commerciale, l'importanza del mezzo artistico e quale formula magica trasformi una persona qualsiasi in un artista. La risposta ricorrente è: il denaro. TG
Odio la Finanza
Torno a parlare con Amy D, la gallerista con la quale avevo già avuto un incontro nel novembre del 2016 per parlare dei nuovi materiali per gli artisti. Questa volta affronto con lei in modo più specifico alcune questioni che riguardano la fotografia e l'economia. Come già era capitato parlando con Fabio Castelli, cerco di capire come si possa distinguere la fotografia d'arte dalla fotografia commerciale, l'importanza del mezzo artistico e quale formula magica trasformi una persona qualsiasi in un artista. La risposta ricorrente è: il denaro. TG
Bruce Chatwin - L'occhio Assoluto
Tony Graffio: Ciao Annamaria, puoi spiegarmi perché in questo momento la fotografia è una forma d'arte così diffusa che interessa tanta gente, galleristi compresi?
Annamaria D'Ambrosio: Riformulerei leggermente la domanda. Come mai ci sono così tanti fotografi?
TG: Beh, questo lo sappiamo, o per lo meno lo immaginiamo. La fotografia è una forma di comunicazione facile ed immediata, alla portata di tutti, soprattutto nella nostra epoca digitale: si schiaccia un bottone e poi si sceglie un'immagine da stampare senza nemmeno passare per la camera oscura. E' davvero la tecnica più semplice che ci permette d'ottenere istantaneamente ottimi risultati senza sforzo e, a volte, senza nemmeno molta preparazione. Quello che invece io volevo sapere da te è perché la fotografia, anche in Italia, sta diventando un'arte che entra sempre di più nelle gallerie, nelle case dei collezionisti e nei musei?
ADA: La fotografia è un'arte. Da quando io ho scoperto Chatwin ed il suo bellissimo libro: "L'occhio assoluto", ho capito che la fotografia poteva diventare, ed era, arte. Il problema della fotografia, a volte è il mezzo che utilizza. Distinguo sempre tra la capacità nel padroneggiare un mezzo tecnico, che attualmente consente quasi di fare dei miracoli, da fotografi che invece si dedicano ad un progetto comunicativo. A questo proposito, vorrei citare un artista del quale mi sento intellettualmente innamorata, ovvero: Daesung Lee. Ci sono almeno due modalità d'agire all'interno della fotografia completamente diverse.
TG: Lui è un artista che usa la fotografia, forse anche per praticità.
ADA: Lui è un artista che si inserisce in progetti no-profit governativi che intende esprimere una sua idea in quel contesto. Ha qualcosa da dire e lo fa con il mezzo fotografico che evidentemente è lo strumento che gli è più congeniale.
TG: Più comodo, diciamo...
ADA: Più comodo, ma anche quello che lui sa usare meglio. Anche se ultimamente vorrebbe cimentarsi con un discorso più legato alle installazioni. D'altro canto, ci sono gli artisti che arrivano dalla moda, dal design e dall'architettura che hanno un'abilità eccezionale nel fare fotografia, ma per l'appunto si tratta di un "fare fotografia". Non si tratta in quel caso di arte in fotografia, anche se poi i risultati possono essere strabilianti, come nel caso di Gian Paolo Barbieri ed artisti di quel calibro. Un lavoro loro, io me lo metterei in casa, eccome.
TG: Beh certo, se sono artisti...
ADA: Come gallerista, però, se devo investire su un artista, investo su qualcuno che mi dice una cosa in maniera diversa da un altro. La fotografia diventa business nel momento in cui si inserisce in un mercato particolare. Questo è un mercato che esiste anche in Italia. Non come in Francia, non come in Inghilterra, in Germania o negli USA. Ci sono città che diventano delle cittadelle d'arte che si dedicano alla fotografia, un po' come Arles. Ragione per cui, se io voglio trovare un mio fotografo di riferimento andrò a recuperarlo ad Arles.
TG: Mi spiace dirtelo, ma il Festival di Arles non è più quello di una ventina d'anni fa; anche questa manifestazione è un po' decaduta ultimamente.
ADA: E' comunque sempre interessante e bisogna saper leggere tra le righe. Nella decadenza, in mezzo alle ceneri, a volte ci possono essere dei gioielli, ma devi avere occhio e, soprattutto, devi saper investire. Se non investi, difficilmente un artista può spiccare il volo.
TG: Su questo ti do completamente ragione. La fotografia è però anche un'espressione estetica della realtà che vuole rappresentare. La fotografia cerca di rappresentare qualcosa di bello, mentre l'arte contemporanea difficilmente esprime qualcosa di gradevole. Sembra più intenzionata a stupire che a farci stare bene.
ADA: Non è detto che la fotografia proponga sempre un discorso estetico, anzi le ultime fotografie sono spesso di denuncia ed in alcuni casi diventano perfino un mezzo che registra il movimento, per cui non c'è più un discorso estetico.
TG: In molti casi la fotografia è reportage, non arte. Ancora oggi c'è chi strizza l'occhio al pittorialismo, o ripercorre strade che si ispirano alle tecniche o ai canoni del passato. Si tratta di qualcosa di diverso, in quei casi. In quanto alla fotografia di denuncia, anche quello è un genere sempre esistito, non è stato inventato nulla di nuovo ultimamente.
ADA: Secondo me, con la fotografia bisogna stare molto attenti al discorso della sua riproducibilità. Bisogna fare molta attenzione alla filiera che troviamo dietro, parlo degli stampatori e dei galleristi di riferimento alle spalle dei fotografi. Ma anche all'artista. Bisogna stare molto attenti alle edizioni, alla qualità della carta usata. Se vuoi proteggere e tutelare l'acquisto di un'opera fotografica, la certificazione è importantissima. Come ti ho già raccontato l'altra volta, il mio sogno è quello di ottenere un piccolo finanziamento per poter inserire un microchip al grafene nel retro di alcune opere fotografiche, in modo da garantirne in modo certo l'autenticità. Perché questo sarà il futuro.
TG: A questo punto, mi viene da chiederti qual'è l'importanza dei materiali, oltre che delle tecniche, nell'arte?
ADA: I materiali possono rivoluzionare e segnare un nuovo inizio nel mondo dell'arte. Se poi parliamo di arte contemporanea, sicuramente diamo una chance incredibile ai giovani artisti. Ci sono materiali nuovi che consentono di creare opere uniche e solo chi sperimenterà questa esperienza avrà modo di vivere questo nuovo inizio. Naturalmente, questi cambiamenti andrebbero supportati dalle istituzioni, tra cui le scuole d'arte, gli istituti di ricerca. Bisognerebbe far avere agli artisti qualche finanziamento. Qui entrano in gioco le banche che dovrebbero istituire dei premi per chi sperimenta nuovi materiali e nuove tecniche, ma purtroppo, non sempre è così. Anzi, quasi mai.
TG: Quello che però non fanno le banche lo fai tu. Tu hai donato alcuni materiali speciali ai giovani artisti per la realizzazione delle loro opere?
ADA: Sì, in quello che io considero un atto di dona-azione. L'azione del dono. E' un po' come un'azione che avviene in una performance. Investo e l'artista si crea un'identità nuova anche rispetto al materiale, grazie alle sue capacità. La mia ricerca è dettata anche dall'interesse di trovare materiali non nocivi per l'artista che li usa e per chi li conserva a casa sua. L'attenzione verso la salute dell'artista è una cosa abbastanza rara. Pensiamo a Burri e ad altre persone che si sono avvelenate a causa dei materiali che utilizzavano. Pensiamo all'encaustica! Quando io ho iniziato la mia attività ignoravo certe cose e ricordo che una delle mie artiste lavorava con la tecnica dell'encaustica che è qualcosa di estremamente nocivo. Per di più, quella donna era al terzo mese di gravidanza. Solo a posteriori, ho realizzato di questa problematica, ma anche l'artista era quasi inconsapevole di questa tossicità e si limitava a tenere aperta una porta per fare aerare la stanza.
TG: Credo che Enzo Cacciola utilizzasse addirittura l'amianto per le sue opere...
ADA: Certo, tantissimi artisti hanno utilizzato materiali estremamente tossici. Per non parlare degli scienziati che lavoravano con sostanze molto pericolose. Noi adesso viviamo in una stagione completamente diversa e certe cose non devono più accadere. L'attenzione per l'ambiente deve prima passare attraverso l'attenzione per noi esseri umani.
TG: Non è piacevole avere in casa certi materiali, vero?
ADA: Assolutamente no, ma non solo quello. Non è nemmeno bello pensare a chi ha lavorato su quei materiali. Il rapporto tra materiali e arte è un rapporto dialettico perennemente in lotta. E' l'artista che deve prendere il sopravvento sui materiali. Il materiale è un mezzo, ma nel momento in cui si utilizza qualcosa per la prima volta è giusto che il materiale completamente innovativo abbia un palco d'onore, perché bisogna metterlo al centro dell'attenzione per farlo conoscere. All'inizio l'artista paga un leggero scotto verso le prove e gli errori, non sono i primi lavori ad essere perfetti e così si procede per tentativi, com'è giusto che sia. Solo in un secondo momento, quando il materiale è completamente sperimentato e conosciuto esso sparisce all'ombra dell'idea e del messaggio dell'artista e delle sue meraviglie artistiche.
TG: Annamaria, adesso posso chiederti come hai iniziato la tua carriera di gallerista?
ADA: Ho iniziato a Brera, per passione, con il cambio merce. Io avevo qualcosa da offrire, o meglio, che mi veniva richiesto. I viaggi per le fiere mi hanno portato a conoscere gli artisti e i galleristi. Nel momento in cui queste persone dovevano saldare i loro conti e magari non avevano soldi, o per altri motivi, mi proponevano degli scambi con alcuni pezzi d'arte contemporanea, subentrava da parte mia l'acquisto mirato.
TG: Tu avevi un'agenzia di viaggi in via Brera?
ADA: Sì avevo un'agenzia di viaggi in via Brera al 3 e mi occupavo anche di selezione del personale per l'Olivetti-Synthesis. Di fronte al mio ufficio avevo la Carla Sozzani e la Galleria De Marsanich che adesso è andata in Spagna. Di fianco avevo Lazzaro e Colanzi. In via Ciovasso, la Galleria di Paolo Seno, un uomo che io ho sempre stimato, compresi i due figli che poi hanno continuato la sua attività. Inoltre, aveva già iniziato la sua attività la Galleria Kaufmann di Francesca Repetto, Kaufmann era l'ex marito. Io ho avuto i miei esordi con Pero, anche se prima ancora a Cartagena mi ero imbattuta in un'arte che mi piaceva molto e con Gabriel Garcia Marquez avevamo iniziato insieme a comprare arte.
TG: Qual'è stata la prima opera che hai desiderato e che poi hai comprato?
ADA: Nella Galleria Seno c'erano opere di un certo valore, Paolo era un mercante d'arte, collezionava e comprava Lucio Fontana, Boetti ed altre opere bellissime. Da lui ottenni con un cambio merce un'opera di un'artista italo-cilena appena uscita dall'Accademia di Brera: Marcella Bonfanti. La conoscenza di questa artista mi è poi servita per esordire con un progetto contro le banche sui titoli-spazzature, assegnandole un lavoro sulla Tiscali.
TG: E poi è stato facile continuare?
ADA: Quelli erano anni in cui si potevano fare guadagni folli, parlo dell'inizi degli anni '90, tutto sembrava possibile, ma al tempo stesso c'era anche un'idea di crisi che arrivava dagli USA. C'erano già dei sentori che gli affari si sarebbero fermati con la fine della Prima Repubblica e l'allontanamento di Bettino Craxi dal mondo della politica. Era la fine della "Milano da bere" e di conseguenza del benessere in Italia. Tramite una persona che conoscevo e che speculava in Borsa, ho iniziato a giocare in Borsa con competenza. Mi piaceva moltissimo. Negli Stati Uniti ho imparato tantissimo da questo mio amico banchiere ed ho iniziato ad appassionarmi ad una tipologia di mercato, imbattendomi già allora, in quelli che sarebbero arrivati poi in Italia con la nomea di "Titoli-spazzatura", ovvero i derivati ed i warrant. Ho studiato a fondo questi titoli e quando in Italia è poi veramente arrivata la crisi, ho pensato di fare un atto di denuncia con l'arte contro questi titoli che venivano acquistati, anche da chi non sapeva minimamente che cosa fossero. Era il 2008. Nel 2010 ho fatto la prima mostra con queste mie idee.
TG: Quando è nata la Galleria Amy D?
ADA: Esattamente nel 2009 e quella è stata la mia prima mostra. prima di allora che trattava la finanza nell'arte lo faceva perché la finanza comprava l'arte, non per esprimere un concetto finanziario attraverso l'arte. L'arte prima era vista come la puttana della finanza. Era una merce, non la protagonista di un discorso complesso. Nel mio caso ho assegnato 5 titoli spazzatura a 5 artisti multietnici che potevano e volevano rielaborare il logo di quella stessa società che distribuiva il titolo quotato in Borsa. Da questa operazione sono nate delle opere d'arte ed io ho proposto alle stesse società che avevano dato le fregature agli investitori l'acquisto di arte per rimettere in moto l'economia. Tre di queste ditte hanno accettato di acquistare le opere e noi siamo finiti sui giornali economici, come The Economist; Il Corriere Economia ed altri, cosa che a me interessava. L'economia non è solo scambio di denaro, ma coinvolge anche altre dinamiche, come la sessualità o il pensiero. Volevo capire come accade che un artista crea un certo tipo di arte. C'è da dire che se non ti rapporti con artisti che hanno dei coefficienti medio-alti il mondo della finanza non ti prende in considerazione. Se il loro linguaggio è quello, il gallerista deve imparare ad utilizzarlo.
TG: Gli imprenditori non vogliono sbagliare e cercano artisti che hanno già una collocazione importante sul mercato.
ADA: Per il mondo della finanza il prezzo elevato delle opere è sinonimo di qualità.
TG: Se costa vale, se vale costa...
ADA: Discorso diverso lo fanno le Fondazioni all'interno delle banche quando devono acquisire i lavori, ma perché dietro quelle operazioni c'è già un curatore. E' il mediatore culturale che deve procurare l'affare alla banca, cosa che io mi rifiuterei di fare. Perché la banca ha sempre tolto, non ha mai dato.
TG: Annamaria, tu che formazione hai avuto?
ADA: Mi sono formata culturalmente a Padova, dove ho studiato psicologia, psicologia clinica, questo era l'indirizzo più scientifico possibile, perché la mia grande passione è sempre stata la fisica. I miei docenti sono stati Toni Negri e la Dell'Antonio. La mia tesi è stata pubblicata su Aut Aut, una rivista che io adoro e, poiché era stata copiata da un gruppo di ricercatori di Palo Alto, California, nel momento in cui l'editore s'è accorto che c'era stato questo plagio palese e che io non avrei mai potuto copiare da loro, perché c'erano delle date precise, è stata intentata una causa internazionale che mi ha dato un certo agio per un paio di anni.
TG: E le competenze in campo artistico come le hai raggiunte?
ADA: Ho sviluppato dei rapporti di amicizia con i galleristi che frequentavo. Avevo accesso alle loro case, facevamo le vacanze insieme, e con uno tra loro, un grosso collezionista di Biella, ho avuto una relazione sentimentale. Abbiamo poi deciso di aprire una specie di Fondazione a Pantelleria. Lì ho avuto un ruolo che mi impegnava nella ricerca delle opere da acquisire, cosa che mi ha fatto prendere contatti con tutte le gallerie più importanti.
TG: Quindi frequentando i galleristi e l'ambiente artistico hai sviluppato le tue competenze in questo mondo ed hai imparato a trattare le opere?
ADA: Ho sempre avuto un rapporto un po' discutibile e vivace con i curatori; ne ho conosciuti pochi che facevano veramente questo lavoro, mentre molti sono un po' delle prime donne ed altri ancora sono totalmente asserviti al potere economico. Ultimamente, ho avuto un bruttissimo rapporto con un curatore che ho contattato per una curatela. Durante un pranzo, la prima cosa che mi ha comunicato era il suo listino prezzi. Io l'ho ascoltato, ma quella per me è stata la premessa e la conclusione di un rapporto. A volte, invece ci sono delle piccole perle, come è stato il caso del mio rapporto con Gabriele Salvaterra, un giovane che collabora anche col Mart di Rovereto, che s'è dimostrato prezioso, modesto e grande nello stesso tempo, intuendo che l'arte sperimentale contemporanea, attualmente non paga più di tanto... L'affitto e la gestione della mia galleria sono molto cari. Inserire ragazzi sconosciuti quasi in una cornice museale è una bella sfida, ma in qualche modo io devo fare attenzione alle spese che devo sostenere, quindi da qualche parte devo risparmiare. Molti artisti non hanno nemmeno i soldi per comprare i materiali che necessitano ed io li aiuto. Più di quello che già faccio non posso fare.
TG: Riesci a guadagnare qualcosa dall'arte che tratti, al netto dei costi che sostieni?
ADA: Nel 2010, le prime mostre che ho organizzato si sono vendute quasi automaticamente. Io vengo da un settore commerciale, facevo selezione del personale, mi sono occupata di un'agenzia di viaggi e sapevo fare il mio lavoro, ma all'interno di una galleria d'arte mi sono resa conto che il discorso commerciale è totalmente diverso. Diciamo che se non avessi anche un'altra attività piuttosto redditizia che mi permette di tamponare certi costi, difficilmente potrei permettermi una sede così prestigiosa. E poi bisogna capire che il collezionista d'arte, il compratore, è un personaggio abbastanza viziato, compra sovente per interposta persona e lo fa spesso per emulazione, perché c'è un altro che ha comprato.
TG: Un amico?
ADA: Esatto. Il discorso è: "Io ce l'ho e tu no...". Ma questa è smania di possesso di un oggetto, non la ricerca di un'opera d'arte. Tutta la bolla speculativa alla quale noi stiamo assistendo negli ultimi temi è determinata da questo modo di agire e di pensare. Chi compra arte non è l'amante dell'arte, ma chi deve avere quel segno artistico come segno finanziario. Ovviamente, questo ragionamento non può funzionare per l'arte emergente. Bisogna creare una nuova tipologia di cultore dell'arte che, grazie anche ad un ottimo rapporto di prezzo/qualità, riesce ad avvicinarsi al mercato dell'arte. Il mio tentativo è quello di proporre l'acquisto di arte in ambiti completamente vergini. Ho provato ad esporre arte in fiere completamente tecniche, perché in certi ambiti, se riesci ad interessare la persona giusta, puoi farla innamorare di un'opera e vendere una cosa perché piace. Non perché ne hanno abusato o perché l'hanno vista a casa degli amici o perché bisogna fare business. L'arte dovrebbe essere consumata come si va a comprare un paio di scarpe, in modo da migliorare se stessi. In casa mia voglio circondarmi di cose che mi diano delle sensazioni. Questo dovrebbe essere il senso dell'arte, a prescindere dall'investimento.
TG: Però, se non si investe sugli artisti, quegli artisti non venderanno mai, è così?
ADA: Direi di sì. L'investimento arriva successivamente, per chi se lo può permettere. Capita al cultore di comprare qualcosa ad un prezzo giusto e col passare del tempo si ritrova un tesoretto in casa. Senza neanche rendermene conto, diversi anni fa, ho comprato un'opera di Fontana. Ho comprato anche dei Vasarely e li tengo da parte. Ma sono opere che non mi dicono quasi nulla...
TG: Ti interessa venderli?
ADA: No, assolutamente, li tengo.
TG: Quando è nata la Galleria Amy D?
ADA: Esattamente nel 2009 e quella è stata la mia prima mostra. prima di allora che trattava la finanza nell'arte lo faceva perché la finanza comprava l'arte, non per esprimere un concetto finanziario attraverso l'arte. L'arte prima era vista come la puttana della finanza. Era una merce, non la protagonista di un discorso complesso. Nel mio caso ho assegnato 5 titoli spazzatura a 5 artisti multietnici che potevano e volevano rielaborare il logo di quella stessa società che distribuiva il titolo quotato in Borsa. Da questa operazione sono nate delle opere d'arte ed io ho proposto alle stesse società che avevano dato le fregature agli investitori l'acquisto di arte per rimettere in moto l'economia. Tre di queste ditte hanno accettato di acquistare le opere e noi siamo finiti sui giornali economici, come The Economist; Il Corriere Economia ed altri, cosa che a me interessava. L'economia non è solo scambio di denaro, ma coinvolge anche altre dinamiche, come la sessualità o il pensiero. Volevo capire come accade che un artista crea un certo tipo di arte. C'è da dire che se non ti rapporti con artisti che hanno dei coefficienti medio-alti il mondo della finanza non ti prende in considerazione. Se il loro linguaggio è quello, il gallerista deve imparare ad utilizzarlo.
TG: Gli imprenditori non vogliono sbagliare e cercano artisti che hanno già una collocazione importante sul mercato.
ADA: Per il mondo della finanza il prezzo elevato delle opere è sinonimo di qualità.
TG: Se costa vale, se vale costa...
ADA: Discorso diverso lo fanno le Fondazioni all'interno delle banche quando devono acquisire i lavori, ma perché dietro quelle operazioni c'è già un curatore. E' il mediatore culturale che deve procurare l'affare alla banca, cosa che io mi rifiuterei di fare. Perché la banca ha sempre tolto, non ha mai dato.
TG: Annamaria, tu che formazione hai avuto?
ADA: Mi sono formata culturalmente a Padova, dove ho studiato psicologia, psicologia clinica, questo era l'indirizzo più scientifico possibile, perché la mia grande passione è sempre stata la fisica. I miei docenti sono stati Toni Negri e la Dell'Antonio. La mia tesi è stata pubblicata su Aut Aut, una rivista che io adoro e, poiché era stata copiata da un gruppo di ricercatori di Palo Alto, California, nel momento in cui l'editore s'è accorto che c'era stato questo plagio palese e che io non avrei mai potuto copiare da loro, perché c'erano delle date precise, è stata intentata una causa internazionale che mi ha dato un certo agio per un paio di anni.
TG: E le competenze in campo artistico come le hai raggiunte?
ADA: Ho sviluppato dei rapporti di amicizia con i galleristi che frequentavo. Avevo accesso alle loro case, facevamo le vacanze insieme, e con uno tra loro, un grosso collezionista di Biella, ho avuto una relazione sentimentale. Abbiamo poi deciso di aprire una specie di Fondazione a Pantelleria. Lì ho avuto un ruolo che mi impegnava nella ricerca delle opere da acquisire, cosa che mi ha fatto prendere contatti con tutte le gallerie più importanti.
TG: Quindi frequentando i galleristi e l'ambiente artistico hai sviluppato le tue competenze in questo mondo ed hai imparato a trattare le opere?
ADA: Ho sempre avuto un rapporto un po' discutibile e vivace con i curatori; ne ho conosciuti pochi che facevano veramente questo lavoro, mentre molti sono un po' delle prime donne ed altri ancora sono totalmente asserviti al potere economico. Ultimamente, ho avuto un bruttissimo rapporto con un curatore che ho contattato per una curatela. Durante un pranzo, la prima cosa che mi ha comunicato era il suo listino prezzi. Io l'ho ascoltato, ma quella per me è stata la premessa e la conclusione di un rapporto. A volte, invece ci sono delle piccole perle, come è stato il caso del mio rapporto con Gabriele Salvaterra, un giovane che collabora anche col Mart di Rovereto, che s'è dimostrato prezioso, modesto e grande nello stesso tempo, intuendo che l'arte sperimentale contemporanea, attualmente non paga più di tanto... L'affitto e la gestione della mia galleria sono molto cari. Inserire ragazzi sconosciuti quasi in una cornice museale è una bella sfida, ma in qualche modo io devo fare attenzione alle spese che devo sostenere, quindi da qualche parte devo risparmiare. Molti artisti non hanno nemmeno i soldi per comprare i materiali che necessitano ed io li aiuto. Più di quello che già faccio non posso fare.
TG: Riesci a guadagnare qualcosa dall'arte che tratti, al netto dei costi che sostieni?
ADA: Nel 2010, le prime mostre che ho organizzato si sono vendute quasi automaticamente. Io vengo da un settore commerciale, facevo selezione del personale, mi sono occupata di un'agenzia di viaggi e sapevo fare il mio lavoro, ma all'interno di una galleria d'arte mi sono resa conto che il discorso commerciale è totalmente diverso. Diciamo che se non avessi anche un'altra attività piuttosto redditizia che mi permette di tamponare certi costi, difficilmente potrei permettermi una sede così prestigiosa. E poi bisogna capire che il collezionista d'arte, il compratore, è un personaggio abbastanza viziato, compra sovente per interposta persona e lo fa spesso per emulazione, perché c'è un altro che ha comprato.
TG: Un amico?
ADA: Esatto. Il discorso è: "Io ce l'ho e tu no...". Ma questa è smania di possesso di un oggetto, non la ricerca di un'opera d'arte. Tutta la bolla speculativa alla quale noi stiamo assistendo negli ultimi temi è determinata da questo modo di agire e di pensare. Chi compra arte non è l'amante dell'arte, ma chi deve avere quel segno artistico come segno finanziario. Ovviamente, questo ragionamento non può funzionare per l'arte emergente. Bisogna creare una nuova tipologia di cultore dell'arte che, grazie anche ad un ottimo rapporto di prezzo/qualità, riesce ad avvicinarsi al mercato dell'arte. Il mio tentativo è quello di proporre l'acquisto di arte in ambiti completamente vergini. Ho provato ad esporre arte in fiere completamente tecniche, perché in certi ambiti, se riesci ad interessare la persona giusta, puoi farla innamorare di un'opera e vendere una cosa perché piace. Non perché ne hanno abusato o perché l'hanno vista a casa degli amici o perché bisogna fare business. L'arte dovrebbe essere consumata come si va a comprare un paio di scarpe, in modo da migliorare se stessi. In casa mia voglio circondarmi di cose che mi diano delle sensazioni. Questo dovrebbe essere il senso dell'arte, a prescindere dall'investimento.
TG: Però, se non si investe sugli artisti, quegli artisti non venderanno mai, è così?
ADA: Direi di sì. L'investimento arriva successivamente, per chi se lo può permettere. Capita al cultore di comprare qualcosa ad un prezzo giusto e col passare del tempo si ritrova un tesoretto in casa. Senza neanche rendermene conto, diversi anni fa, ho comprato un'opera di Fontana. Ho comprato anche dei Vasarely e li tengo da parte. Ma sono opere che non mi dicono quasi nulla...
TG: Ti interessa venderli?
ADA: No, assolutamente, li tengo.
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