Essendo un osservatore sempre attento dell'ambiente fotografico
italiano, per parlare di una ricorrenza importante, ho contattato un professionista che opera a Milano e
dintorni, in modo da potervi raccontare un'esperienza particolare che ha
portato Paolo A. Restelli a compiere un reportage auto-finanziato in uno dei luoghi più
inospitali del pianeta: l'area intorno alla centrale nucleare di
Chernobyl, altamente contaminata da Cesio 137 nel momento
dell'esplosione del reattore numero IV, il 26 aprile 1986.
Quando ho saputo che Paolo era in partenza per l'Ucraina, ho subito pensato che io non avrei mai fatto una cosa del genere e mi sembrava strano che ci fosse qualcuno disposto ad andare a vedere che cosa stesse succedendo a Chernobyl, a 30 anni di distanza dalla catastrofe nucleare che tutti noi ben conosciamo. Avevo visto immagini filmate molto spettacolari riportate da droni, ma non immaginavo che ci fosse davvero chi per soddisfare le proprie curiosità volesse mettere piede nella zona piuttosto pericolosa di un paese che oltretutto non sta vivendo esattamente un periodo tranquillo della propria storia.
Paolo
A. Restelli, autore del servizio fotografico che sto per presentarvi, è andato a visitare la centrale nucleare di Chernobyl a 30 anni dalla fuoriuscita della nube radioattiva, poiché
questo è il tempo di dimezzamento dell'isotopo radioattivo derivato
come sottoprodotto dalla fissione nucleare dell'uranio, metallo che
alimentava il reattore nucleare della centrale Lenin.
E'
particolarmente significativo analizzare quanto sta succedendo in
questi giorni in Ucraina, paese che s'è reso indipendente dalla ex
Unione Sovietica nel 1990 ed ha pessimi rapporti con la Russia, al
punto da preoccupare l'intero continente, considerando il fatto che è
indispensabile che ci sia sempre un dialogo efficace tra Europa, Ucraina e
Russia per poter effettuare gli adeguati controlli e gli interventi di
manutenzione necessari ad una struttura di contenimento delle radiazioni che ha
ceduto da tempo e nella quale si sono formati dei buchi dai quali
fuoriescono sostanze tossiche e contaminanti.
Fotografare con poco tempo a disposizione in un luogo rischioso che non si conosce, in condizioni tutt'altro che favorevoli non è facile, nonostante questo, Restelli ha fatto un ottimo lavoro.
L'avventura
di Paolo A. Restelli è molto interessante e le sue immagini sono di una
bellezza poetica che quasi ci fanno dimenticare la drammaticità dei
fatti che lì sono avvenuti e le difficoltà che ancora devono affrontare
coloro che vivono e si muovono intorno a questi luoghi. Al suo rientro in Italia, il fotografo non aveva ancora trovato qualcuno che si interessasse editorialmente al suo
lavoro, lo aiutasse a valorizzare la sua opera e a diffondere la sua
storia. "Frammenti di Cultura", una realtà culturale quasi insignificante con pochissimi
mezzi che opera sul web per informare, documentare e diffondere
immagini di valore, ha deciso di sostenerlo, cercando di far
conoscere, Paolo A. Restelli ad un pubblico più vasto e di aiutarlo
nel progetto di realizzazione di una mostra fotografica che dovrebbe
essere allestita entro il 2016, e di far stampare una pubblicazione
che raccolga la sua preziosa opera. Dispiace molto che in Italia, da parte della carta stampata e dei mezzi di comunicazione istituzionali, ci sia così poca sensibilità e attenzione nei confronti di chi ha qualcosa di importante da dire e da far vedere, soprattutto per chi opera privilegiando la qualità, sia dei contenuti che del prodotto culturale ed artistico che propone. E dispiace ancor più che sia così difficile dialogare con chi ha le capacità di decidere cosa proporre su certi canali informativi o culturali quando non si ha un nome prestigioso. Così è la vita. T. G.
Nikolai Fomin, la guida autorizzata dai militari che ha accompagnato Paolo A. Restelli ed il suo gruppo di visitatori durante i due giorni trascorsi a Chernobyl. Sullo sfondo la Centrale Nucleare Lenin e lo schermo di protezione costruito da Novarka.
Tony
Graffio intervista Paolo Angelo Restelli
Tony
Graffio: Ciao Paolo, per prima cosa, per favore, vorrei sapere
qualcosa di te: quando sei nato? Dove sei nato? Che formazione hai?
Che esperienze professionali hai avuto?
Paolo
A. Restelli: Ciao Tony Graffio. Sono nato nel 1968 e sono stato
sempre appassionato di fotografia, cosa che in famiglia non era tanto
ben capita perché prima di me nessuno se ne era mai occupato. Prima
d'iniziare la mia attività di fotografo professionista ho svolto
diversi lavori. Come spesso accade, ho iniziato a lavorare per altri
fotografi, poi nel 1994 ho aperto un mio negozio ed è da tanti anni
che sviluppo il lavoro in modo autonomo. Il mio campo d'azione è
quello classico dei negozi che realizzano servizi per matrimoni,
ritratti, cerimonie e tutto quello che viene richiesto ad un negozio
di provincia. Ho conseguito il titolo di studio di perito
elettronico, vivo tra Corbetta e Vittuone dove collaboro con un mio collega che ha un altro studio fotografico ed un paio di giorni alla
settimana mi reco a Milano per consegnare i nostri lavori alla
clientela.
TG:
Come hai fruito della pellicola? Il fatto d'avere una formazione
tecnica ti ha aiutato nel passaggio dalla pellicola al digitale?
PAR:
Con la pellicola ho avuto esperienze anche di fotografia industriale,
ho utilizzato il banco ottico, avevo una mia camera oscura e mi
occupavo dello sviluppo e della stampa del bianco e nero. Ho fatto la
tradizionale gavetta che hanno fatto un po' tutti i fotografi che si
definiscono in questo modo. Mi sono convertito al digitale abbastanza
in fretta, la mia prima reflex digitale è stata una Nikon D1 che ho
comprato nel 1999. Ricordo che quella è stata la prima macchina
fotografica professionale digitale, proposta al pubblico dopo la
Nikon F90 e la F100 che sono state le ultime fotocamere a pellicola.
Sono passato al digitale perché a cavallo dell'anno 2000 iniziavano
ad uscire nell'ambito dei matrimoni i primi libri fotografici ed il
fatto di poter disporre direttamente di un file digitale ci
poteva tornare utile per evitare poi la conversione dallo sviluppo
della pellicola alla scansione a tamburo del negativo e per
impaginare in digitale tutte le immagini che venivano utilizzate. Da
lì ho sempre utilizzato Nikon passando dalla D100, alla D70, alla
D200, fino al mio attuale parco macchine preferito che comprende 4
Nikon D700 e 1 Nikon D3.
Chernobyl Area
TG:
Quando ha iniziato a maturare in te l'idea di recarti in un posto
terribile come Chernobyl?
PAR:
Questa è un'idea che ho conservato dentro di me in maniera
embrionale per tantissimo tempo perché mi ha sempre affascinato la
possibilità di poter effettuare un viaggio in quei territori
abbandonati per riportare a casa una storia e delle immagini. La
radioattività può essere pericolosa, ma è una realtà che non si
vede e che non si percepisce per mezzo dei nostri sensi, quindi è
come se non ci fosse. Probabilmente, proprio perché non si vede, io
non la considero un ostacolo che possa fermare il mio desiderio di
recarmi sul luogo dove invece sono visibili altri cambiamenti e
situazioni interessanti. Inoltre, io sono un motociclista che ha
girato tutta l'Europa in motocicletta ed ho sempre pensato che uno
dei viaggi che avrei voluto fare era quello di spingermi fino in
Ucraina con la mia moto. Questo progetto, purtroppo, s'è dimostrato
impossibile da realizzare perché ci vogliono dei permessi speciali,
la zona è sotto il controllo militare, bisogna essere accompagnati
per entrare in quest'area e ovviamente non è possibile arrivare lì
da soli. L'anno scorso mi sono spinto fino a 120 chilometri da San
Pietroburgo, ai confini con la Russia. Sono arrivato fino a Narva in
Estonia e mi sono accontentato di fare il giro delle Repubbliche
Baltiche, rientrando poi in Italia dalla ex-Germania Orientale,
perché mi piacciono queste destinazioni.
Oggetti abbandonati all'interno degli edifici
TG:
Ho capito, e poi come sei arrivato a mettere in pratica questo tuo
sogno?
PAR:
Diciamo che proprio perché il grosso delle immagini che riprendo è
legato alla fotografia di ritratto e di matrimonio, ho avuto un po'
lo stimolo per cercare di fare qualcosa di diverso, sulla soglia dei
50 anni, e dare una svolta al mio campo d'azione. Ho voluto vedere le
persone all'interno della loro vita quotidiana e fare un reportage su
un argomento mirato. Chernobyl è stata una di queste occasioni che
mi si è presentata di recente quando, durante la mia presenza ad un
workshop, ho saputo che Fujifilm organizzava una sessione di riprese
a Chernobyl per fare testare ai fotografi le sue nuove fotocamere. Io
conosco Max De Martino che mi ha detto che c'erano ancora dei posti
disponibili per questo viaggio, così mi sono attivato immediatamente
per richiedere il passaporto e far parte di questo gruppo di persone.
Eravamo in 12, ognuno di noi aveva le sue peculiarità ed una diversa
preparazione, cosa che ci ha permesso di scambiare idee ed
esperienze. Tra di noi c'era un medico di Viareggio, un antropologo
di Firenze ed altri che hanno dato il loro contributo in modo proprio
a questa esperienza. Tutti eravamo appassionati di fotografia, ma
solo Max De Martino ed io siamo fotografi professionisti.
TG:
Quando hai deciso di partire?
PAR:
Alla fine di marzo, e dopo circa due settimane ero già in viaggio.
TG:
Che cosa prevedeva questo workshop?
PAR:
Era una prova sul campo della nuova serie X-Pro di Fujifilm, c'era un
responsabile di questo marchio che gestiva tutta l'attrezzatura per
farcela provare. Oltre a quello, naturalmente c'era la possibilità
di fare questo viaggio in compagnia di persone che trattavano
quest'argomento e un'organizzazione che aveva provveduto a chiedere
permessi e prenotare i posti dove pernottare.
Un interno a Prypiat
TG:
Che cosa ti aspettavi da questa avventura?
PAR:
Quello che poi ho visto è stato quello che mi aspettavo di trovare,
per cui posso ritenermi soddisfatto. Molti degli ambienti che avevo
visto in alcuni documentari li ho ritrovati. Ero abbastanza preparato
a questo viaggio e già negli scorsi anni avevo fatto molte ricerche
per capire a cosa sarei andato incontro e che cosa avrei visto. Di
solito canali come Discovery e History Channel propongono materiale
filmato molto valido che ti può far capire la realtà di questi
posti. E' soprattutto questo il materiale che ho utilizzato per
potermi documentare sulla tragedia di Chernobyl. Il mio sogno era
quello di andare a vedere di persona questi luoghi. Aver potuto fare
questo viaggio per me è stato molto importante, anche perché ho
potuto constatare che tutto era proprio così, come mi aspettavo che
fosse. Aver vissuto questa avventura mi ha dato emozioni molto forti.
Quello che mi ha impressionato di più in tutto il viaggio è stato
il continuo “bippare” del contatore Geiger che ti scandiva il
tempo ed il ritmo della giornata, molto più che la presenza
dell'orologio. Era come non avere l'orologio, ad ogni secondo però
sentivi un “bip” che poi quando ti avvicinavi alle zone più
pericolose sembrava impazzire e si ripeteva a raffica, in brevi
intervalli.
Il rischio radioattivo è direttamente proporzionale alle quantità di radioattività assorbita dal corpo umano.
Per avere un'idea delle dosi di radiazioni ionizzanti si può consultare questa tabella
TG:
Chi vi ha fornito il contatore Geiger?
PAR:
Ci è stato fornito dagli ucraini su richiesta degli organizzatori,
volendo lo puoi portare anche da casa, noi però l'abbiamo noleggiato
ad un costo quasi irrisorio.
Un'immagine ad effetto che probabilmente qualcuno ha preparato per impressionare i visitatori di Prypiat.
TG:
Qual è il fascino di Chernobyl? Qual è la vera motivazione che ti
ha spinto fin là? Una ricerca estetica, o l'aver voluto capire bene
quello che è successo?
PAR:
Volevo capire che cosa è successo davvero e vedere questa cosa dal
punto di vista di coloro che ancora vivono in questa zona. Anche le
guide che ci hanno accompagnato vivono e abitano nei dintorni della
centrale. L'occasione di poter parlare con queste persone è unica;
ci sono le famose babushka di Chernobyl che fanno parte della gente
che abita lì. In un primo tempo erano state allontanate, ma poi sono
tornate nelle loro case, o in case che hanno trovato libere.
Recentemente è stato presentato anche un film documentario di una
co-produzione americana-canadese su queste donnine molto anziane che
vivono lì come ribelli. A detta della nostra guida, sembra che solo
una donna, Rosalia Ivanovna, morta lo scorso dicembre, non si sia mai
allontanata dalla sua casa dal 26 aprile 1986. Era una ex-insegnante
di lingua ucraina. Per farla sloggiare le avevano tagliato acqua luce
e gas, ma lei ostinatamente ha sempre vissuto lì, senza nessun tipo
di utenza ed è morta all'età di 84 anni, circa. Questo è quello
che ci è stato detto. Era una poetessa che ha lasciato molti
scritti, ma non so se qualcuno li abbia mai raccolti. In una mia
fotografia puoi vedere la sua casa.
La ruota panoramica di Prypiat doveva essere inaugurata il 1° maggio 1986 ma, ovviamente, nessuno ha poi potuto utilizzarla ed il parco di divertimenti assume un sinistro significato visto ai nostri giorni. Come si poteva immaginare di portare dei bambini a divertirsi a ridosso di un impianto nucleare?
TG:
Quanta gente vive ancora in quell'area?
PAR:
Nell'area dei 30 chilometri, teoricamente non potrebbe viverci
nessuno. Ci sono due zone: in una c'è il paese di Chernobyl che ha
un raggio di km 10, intorno alla centrale e nessuno può vivere lì.
Le case per ragioni di sicurezza sono state quasi tutte rase al suolo
e sotterrate per evitare la dispersione di polveri radioattive. Ci
possono entrare solo i lavoratori della centrale e quelli che
costruiscono la tettoia di protezione del sarcofago che coprirà il
reattore. Una specie di sarcofago nuovo anche se non è esattamente
così che funzionerà. Quando si entra e si esce da quella zona
bisogna fare obbligatoriamente il controllo della radioattività
residua passando attraverso un body scanner. Se per caso risulti
contaminato devi lasciare lì i tuoi indumenti e ti vengono forniti
degli indumenti temporanei per poter uscire da quella zona. Nella
zona esterna a questa, quella che arriva fino a km 30 dalla centrale,
in teoria non potrebbe viverci nessuno, invece s'è ripopolata con un
centinaio di persone che sono proprio le babushka (nonne) delle quali
ti accennavo prima.
Il body scanner in azione
TG:
Sono tutte donne?
PAR:
Sono quasi tutte donne, perché i mariti, come succede anche qua,
muoiono prima. C'è da dire che un po' tutti in quella zona
lavoravano nella centrale e chi più o chi meno, ha avuto problemi,
non deve stupire che siano morti. Le donne che scelgono di vivere in
questa zona, disobbedendo alle indicazioni date dalle autorità, sono
come fantasmi perché non possono avere documenti, non hanno
pensione, assistenza sanitaria e nessun altro aiuto. Vivono solo di
quello che cresce nei loro orti, dei loro animali, capre o mucche che
riescono ad allevare e raccogliendo l'acqua dai pozzi.
La casa di Rosalia Ivanovna a Zalissya
Zalissya è un villaggio morto che non appare più sulle carte. In questa mappa è indicato ancora un abitante, ma come abbiamo detto l'anziana ex-insegnante è morta a 84 anni nel dicembre del 2015.
TG:
Lo stato ucraino non riconosce nessuna indennità a queste persone?
PAR:
No, perché essendo rientrate a loro rischio e pericolo nelle loro
case, o in quelle che ancora hanno trovato disponibili, hanno perso
ogni diritto.
TG:
Tu le hai intervistate?
PAR:
Volevo intervistare una donna che viveva col marito. Ero riuscito a
prendere accordi con lei, ma poi nel momento che mi sono presentato,
mi ha detto che suo marito stava male e che aveva un problema
respiratorio, quindi lei non se l'è sentita di parlarmi. Anche
perché in questo periodo, essendo a ridosso della ricorrenza del
trentennale del disastro di Chernobyl, è già da circa un mese e
mezzo che troupe televisive di tutto il mondo sono alla
ricerca di questo tipo di testimonianze. Chi vive in quest'area per
sua natura è già abituato a stare da solo e a non avere contatti
esterni. Il fatto di vedere in continuazione gente sconosciuta che va
avanti e indietro ha un po' stravolto la loro tranquillità e li ha
innervositi, cosa che li induce a trovare dei pretesti per
allontanare i curiosi. Questo rifiuto però, per me è un motivo che
mi spingerà a tornare in quei posti per cercare di avere maggiori
contatti con la gente. Io credo che quest'area cambierà molto e sarà
visitabile per circa 3 o 4 anni ancora, anche perché dall'anno
prossimo verrà messo in posizione lo schermo a copertura del
sarcofago, cosa che non renderà più visibile la centrale,
cancellando questa icona del disastro dai nostri occhi. A Prypiat
invece, la vegetazione sta prendendo il sopravvento su tutto: quattro
strade vengono mantenute percorribili da coloro che incentivano
questa forma di turismo da disastro nucleare, però non si può
prevedere per quanto questa situazione potrà andare avanti in questo
modo. Anche i casermoni in cemento armato soffrono delle
infiltrazioni d'acqua che ne mina la stabilità. A breve, sarà
troppo pericoloso visitare gli edifici e aggirarsi tra i palazzi,
inoltre quando man mano scompariranno le donne anziane, non ci sarà
neppure qualcuno la cui presenza possa attirare la nostra attenzione.
Chernobyl attualmente è popolata solo dai tecnici e dagli operai che
stanno terminando la schermatura della centrale. Ci sono anche alcuni
scienziati che stanno portando avanti studi biologici sulle
conseguenze delle esposizioni alla radioattività sugli animali
selvatici.
Un'altra fotografia di Paolo A. Restelli ripresa dal tetto di un palazzo di Prypiat
TG:
A proposito del sarcofago di contenimento delle radiazioni, in che
condizioni è? Fuoriesce radioattività? Quando sarà pronto il nuovo
schermo titanico?
PAR:
I lavori dovevano essere completati già quest'anno, ma ci sono stati
dei ritardi. Nel 2013 una nevicata ha fatto collassare una parte del
sarcofago e adesso c'è un buco largo quasi due metri e mezzo. Da lì
entrano uccelli ed altri animali, si infiltra l'acqua piovana e c'è
sicuramente qualcosa che esce, anche fosse soltanto pulviscolo
radioattivo. Gli uccelli che arrivano da lì, se toccano il suolo
contaminano a loro volta altri luoghi. Per queste motivi hanno deciso
di provvedere all’allestimento di una copertura scorrevole sul
sarcofago. Questo nuovo schermo non sarà a tenuta stagna come il
vecchio sarcofago, ma sarà una specie di tettoia che proteggerà
quel che resta del reattore nucleare dagli agenti atmosferici. La
copertura ha la forma di un hangar ad arco ed è costruita con tre
strati di acciaio-gomma-acciaio-gomma-acciaio-gomma. E' costruita ad
un centinaio di metri di distanza dal sarcofago perché in
corrispondenza del reattore la radioattività sarebbe troppo alta per
poterci lavorare. Poi, la copertura verrà traslata sopra il
sarcofago. Viene costruita su binari pertanto una volta pronta,
basterà spingerla in posizione. Ecco guarda, in questa fotografia
puoi vedere quello di cui ti sto parlando.
TG:
Ma questo signore che indossa una giacca di una divisa con una
bandiera tedesca sulla spalla, chi è?
PAR:
Ah, questa è una storia strana. E' lui che ci ha guidato al'interno
di queste zone, si chiama Nikolai Fomin ed è omonimo di quel Nikolai
Fomin che era l'ingegnere capo responsabile della centrale il giorno
dell'incidente.
Anche a Chernobyl è arrivata la primavera
TG:
Quanta radioattività c'è a Chernobyl adesso?
PAR:
Geiger alla mano, anche perché uno ce lo siamo portati direttamente
da Milano e avevamo la possibilità di fare dei raffronti con altre
situazioni, abbiamo misurato la radioattività in volo durante il
nostro viaggio da Milano a Kiev e ci siamo accorti che la
radioattività aumentava con l'aumentare dell'altitudine. In due ore
di volo abbiamo accumulato 2,4 microSv di radioattività all'ora, per
un totale di 4,8 microSv. circa. Nei due giorni trascorsi a
Chernobyl invece abbiamo accumulato circa 7 microSv. In teoria
l'andare e tornare in aeroplano da Kiev ci ha fatto raccogliere più
radioattività che soggiornare due giorni a Chernobyl. Chiaro che a
Chernobyl ci sono dei punti dove la radioattività è molto alta,
come all'ingresso dell'ospedale, dove c'è la ruota panoramica, la
foresta rossa che è la zona subito a ridosso della centrale
nucleare. La nuvola radioattiva sprigionata dal reattore nucleare si
è diretta verso nord in direzione della Bielorussia ed in quei punti
che ti ho appena descritto la radioattività è molto alta,
nell'ordine dei 500 microSv. Da lì puoi passare in modo veloce solo
per transitare da un posto ad un altro. Di certo non puoi stazionare.
Le babushka mangiano e bevono i loro prodotti, non lasciano
mai quest'area, eppure vivono fino quasi a novant'anni. In Iran c'è
un paese che ha una radioattività naturale di fondo di circa 200
microSv. Eppure anche lì la gente ci abita e addirittura ci si reca
per sottoporsi a cure termali. Si tratta di Ramsar, sul Mar Caspio.
Un interno della scuola di Prypiat
TG:
E' più pericoloso essere esposti alla radioattività o attraversare
certi palazzi in rovina?
PAR:
La radioattività non è un problema da sottovalutare. Non è
consigliabile entrare nella zona senza un contatore Geiger, ma la
pericolosità dipende da quanto tempo ti fermi in certi punti; quando
cammini in alcuni palazzi devi fare molta attenzione a dove metti i
piedi. Non mi hanno riferito di incidenti gravi all'interno degli
edifici, i palazzi di Prypiat sono costruiti di cemento armato
e sembrano ancora solidi, ma nei paesini le case di legno con
pavimenti sempre di legno sono continuamente a rischio di cedimenti
strutturali. Ci sono anche altri pericoli per chi non ha cervello,
poi ti racconterò quello che è accaduto a chi è entrato
abusivamente nell'area per trafugare materiali di vario tipo.
Il traliccio dell'antenna da spionaggio Duga, conosciuta in tutto il mondo anche col nome di: "Picchio russo"
TG:
Ho sentito che girano anche delle leggende metropolitane su una
postazione radar che si chiama Duga che è nei pressi della centrale
nucleare. Che cosa puoi dirmi al riguardo?
Paolo A. Restelli s'è arrampicato sul Duga per fare qualche scatto, ma la giornata umida l'ha dissuaso dal salire troppo in alto
PAR:
In effetti, circolano delle storie che raccontano che l'esplosione di
Chernobyl non sia un incidente, ma sia stata provocata
volontariamente per sviare le indagini che gli americani stavano
facendo sul Duga. C'è chi ha messo in giro le voci che i sovietici,
per evitare che i nemici potessero scoprire qualcosa di importante su
questa base spionistica, abbiano spostato l'attenzione degli
americani danneggiando la centrale, ma francamente, mi sembra una
storia molto inverosimile. Al pari di quelle che girano in relazione
all'11 settembre ed alla distruzione delle torri gemelle di New York.
Sono storie che servono solo a promuovere film catastrofisti pieni di
complotti assurdi.
Una scala di servizio che permette di salire sul "Russsian woodpecker". E' bello che adesso i militari ucraini lascino fare ai visitatori quasi tutto quello che vogliono, tranne portarsi via souvenir.
TG:
Era questo il villaggio che non era stato segnalato dalla cartografia
sovietica?
PAR:
Sì, il villaggio del Duga veniva chiamato Chernobyl 2 e non
risultava su nessuna mappa stradale, o cartografia. I russi hanno
sempre sostenuto che quei tralicci di ferro che compongono l'antenna
radar, che oltretutto sono visibili chiaramente a più di km 10 di
distanza, essendo la costruzione lunga 400 metri e alta 170, fossero
l'intelaiatura di un ottovolante di un parco dei divertimenti per
bambini. Per arrivare in quel sito bisognava fare una strada lunga km
8. All'interno della stazione radar del Duga c'erano palazzi,
negozi, uffici e tutto quello che era di contorno alla vita dei
militari e delle loro famiglie che vivevano lì. Non si sa con
precisione quante persone abitassero effettivamente in quel paese
perché quello è un dato che è sempre rimasto segreto, ma si
vedevano molti edifici. Il Duga era un radar che chiamavano il
picchio russo (The russian woodpecker) perché emetteva soltanto
segnali che ricordavano i battiti di questo uccello contro il tronco
degli alberi.
Spaghetti in bottiglia?
TG:
Tornando alla fotografia, hai fatto fotografie sia con Nikon che con
Fujifilm nei due giorni della tua permanenza a Chernobyl?
PAR:
No, ho utilizzato solo la mia Nikon D700. Essendo le Fujifilm della
serie X-Pro delle mirrorless che non conoscevo bene, non avendole mai
usate prima ed avendo poco tempo a disposizione e tanto materiale da
fotografare, ho optato per portare a casa quello che mi serviva,
anziché testare delle macchine nuove. Oltre tutto, siamo riusciti ad
avere una sola giornata di tempo buono, mentre l'altra giornata ha
piovuto a dirotto, così il secondo giorno di riprese ci siamo
rifugiati a fotografare gli interni.
Una vecchia immagine sovietica che chiede ai giovani di arruolarsi nell'Armata Rossa. Si tratta dell'equivalente sovietico dello zio Sam americano che dice ai giovani: "I want you!".
TG:
Hai portato con te un altro corpo macchina?
PAR:
Sì, ho portato anche una fotocamera bridge, la Nikon P610 che con
un'ottica equivalente ad un 1440 mi ha permesso di riprendere alcuni
soggetti molto lontani, in più ha un gps interno che nel mio caso
s'è rivelato molto utile. E' una fotocamera che ho deciso di portare
con me soprattutto per poter girare qualche filmato.
TG:
Che ottiche hai portato con te per la full frame?
PAR:
Un 28-300mm stabilizzato f 3,5-5,6 che ho quasi sempre tenuto in
macchina e un grandangolo della Sigma 14-24mm per fare delle
immagini un po' più spettacolari.
TG:
Hai fatto fatica a decidere che cosa portare?
PAR:
No, è stato difficile fare la borsa perché in una borsa doveva
starci tutto e soprattutto doveva essere leggera per non doverla
appoggiare a terra. Fortunatamente avevamo un camioncino che ci
portava da un punto ad un altro, cosa che ci ha agevolato il lavoro.
Abbiamo potuto così lasciare le borse a bordo di quel mezzo e
portare con noi solo lo stretto necessario per poter fotografare
muovendoci agevolmente. La D700 s'è dimostrata ancora una volta una
fotocamera affidabile, robusta e comoda, in quanto, a differenza
della D 3 la D 700 ha l'impugnatura staccabile ed in questo modo ho
potuto posizionare comodamente l'MD10 nella borsa durante il volo.
La piscina comunale di Prypiat fotografata dal gruppo cui faceva parte Paolo A. Restelli. In vari punti sono presenti dei graffiti, fatto che fa supporre che qualche writer non rinunci a lasciare il suo segno neppure qui, magari introducendosi a notte fonda nella zona di esclusione, quando i militari non sono presenti.
TG:
Esiste un turismo da disastro nucleare? Quante persone arrivano a
Chernobyl per provare l'emozione di vedere la centrale numero 4 e per
scattarle qualche fotografia?
PAR:
Sì, è così, parlando un po' con la gente del posto è emerso che
il turismo si attesta intorno alle 400-500 presenze al mese, in
queste due ultime settimane, in corrispondenza del trentesimo
anniversario c'è stata un'impennata di richieste per questa
destinazione e si parlava di circa 100 presenze al giorno, che non
sembra, ma sono tante.
TG:
Quindi 500 presenze circa alla settimana, anziché al mese?
PAR:
Esatto.
Graffito di un bambino che fa il gesto del "marameo" a Chernobyl
TG:
E com'è stata vista la vostra presenza? Erano contenti che qualcuno
si interessasse al loro reattore nucleare esploso e al loro stile di
vita?
TG:
Sinceramente, non abbiamo incontrato molta gente, al di fuori delle
nostre guide e gli altri turisti che magari incontravamo a Prypiat.
Abbiamo incontrato una troupe televisiva di SVT, proveniente dalla
Svezia, mentre il giorno prima abbiamo incontrato una troupe di
Hystory Channel che stava girando dei filmati. So che Philip Grossman
ha fatto una serie di riprese in questi luoghi per un periodo di
cinque anni che poi sono state utilizzate all'interno di vari
documentari che ho seguito anch'io su Youtube. C'è chi ha fatto
degli studi che sono durati diversi anni ed è ritornato
periodicamente in questi posti. Secondo me, il discorso più
interessante che si può fare intorno a questi argomenti riguarda
proprio i resettler, ovvero le persone che sono ritornate a
vivere nelle loro case dopo il disastro. Oltre a loro, Chernobyl è
abitata dai lavoratori della Novarka che stanno costruendo l'arco di
protezione al sarcofago, per il resto gli altri sono quasi tutti
militari.
Un "turista" osserva il porto di Chernobyl, qui vicino alloggiavano i "liquidatori" durante le loro missioni per la costruzione del sarcofago di cemento.
Tutte le fotografie sono state realizzate da Paolo A. Restelli
Tutti i diritti riservati