Sono andato da Armando Marrocco per sentire dalla sua viva voce alcune fasi della sua esperienza artistica e qualche ricordo dei favolosi anni 1960 che per Milano sono stati un periodo di grandi innovazioni, idee e l'inizio di un momento, probabilmente irripetibile, del genio creativo italiano come avanguardia culturale mondiale.
Marrocco mi ha ricevuto nel suo studio alle porte di Milano e lì ho iniziato un'intervista che vi propongo in questa pagina.
Armando Marrocco
Tony Graffio: Maestro, grazie per avermi ricevuto, sono venuto qui nel suo studio per conoscerla di persona e chiederle di parlarmi di lei, della sua formazione, della sua opera e di quegli indimenticabili anni che hanno visto nascere molti movimenti artistici d'avanguardia e molti personaggi che lei ha conosciuto e frequentato a lungo. Da dove vogliamo incominciare?
Armando Marrocco: Certo, i favolosi anni '60... Tony è un piacere incontrarti e poterti raccontare queste cose. Iniziamo da quando sono arrivato a Milano, nel 1962. Prima facevo l'insegnante di scultura in un istituto d'arte...
TG: Mi perdoni, ma lei ha iniziato molto giovane ad insegnare?
AM: Sì, all'epoca io ero l'insegnante più giovane d'Italia, avevo 19 anni e mezzo e mi hanno proposto questa cattedra per meriti artistici. Una volta diplomato all'Istituto Statale d'Arte "Giuseppe Pellegrino" di Lecce, dove ho fatto la mia formazione di scultore, in quello stesso Istituto d'arte rimasi come insegnante.
TG: Quindi lei ha avuto un riconoscimento molto veloce delle sue capacità e delle sue competenze artistiche?
AM: Sì, in quel periodo era mancato un insegnate ed alla fine della scuola sono stato chiamato per insegnare, anche se per certi aspetti avevo ancora molte cose da imparare dai miei colleghi che solo fino a pochi mesi prima erano i miei docenti (ride, questa idea lo diverte ancora oggi).
TG: Come si è verificata questa cosa, è stato proposto dal preside? O da qualcun altro?
AM: Fu fatta una cernita tra i migliori studenti che stavano per diplomarsi ed alla fine fui scelto io. In quell'anno, durante il periodo di Natale del 1959 io feci un viaggio perché ero riuscito ad avere un appuntamento con Lucio Fontana. Lui mi ricevette, come era sua abitudine fare con tutti i giovani artisti, perché lui era un uomo molto generoso, da questo punto di vista. Mi fece delle domande, volle sapere da dove venivo, gli mostrai delle fotografie dei miei lavori, gli dissi che vivevo a Lecce dove facevo l'insegnante e lui mi disse: <...Macché, vuoi fare l'insegnate se sei capace di fare queste cose? Lei deve stare a Milano, a Roma, o a Venezia, lei deve stare in una grande città. Che cosa le può offrire Lecce?>. Ero molto informato e seguivo gli artisti di quel periodo, mi piaceva molto i lavori di Brancusi, Arp e dello stesso Lucio Fontana e Fausto Melotti. Conoscevo questi grandi nomi grazie ad una rivista che nella mia città arrivava appena, appena. Fontana mi mise la pulce nell'orecchio ed io, tornando a Lecce riflettei su questa cosa. Dopo tre anni, decisi di lasciare l'insegnamento per trasferirmi a Milano a fare la fame (ride). Da insegnante con una certa prospettiva, anche economica, arrivai a Milano con niente da fare. Milano pian piano diventò molto generosa e dopo un paio di anni mi dette la possibilità di continuare il mio lavoro di ricerca. Mi reputo sempre un artista poliedrico e ricercatore che non si adagia mai su quello che è riuscito a fare o a ottenere. Tutti i passaggi della mia carriera, passaggi decennali, sono tutti momenti importanti della mia vita. Arrivato a Milano, l'impatto con questa città fu forte perché i materiali erano nuovi per me, bastava entrare in un bar e si vedevano questi grandi banconi d'acciaio inossidabile, le colonne rivestite di metalli ed altre cose. Questo materiale architettonico era diventato la tavolozza per il mio nuovo modo di fare scultura. Da lì, piano, piano, passai a fare la progettazione del mio lavoro. Non era un lavoro istintivo a livello di pancia, ma un lavoro pensato e poi realizzato. Conoscevo un po' anche l'architettura quindi collaboravo con gli architetti. Fino ad arrivare all'arte programmata e cinetica che realizzavo con l'acciaio ed i nuovi materiali. Realizzavo sempre pezzi unici, magari due proprio per fare un discorso inerente a quel progetto. Poi, per un decennio di arte programmata, cinetica e film, fotografia, performance, azioni, installazioni eccetera. Ho percorso tutte le strade che si potevano percorrere, body-art inclusa. Tutto ciò fa parte della mia esperienza culturale, ma ogni tanto faccio una puntata verso il passato, un po' come l'eterno ritorno Nietzsche... C'è sempre il desiderio d'andare avanti ricordando quello che è stato il passato. Tante volte ho anche provato a dimenticarmi di quello che avevo già fatto, per poter fare delle cose nuove, perché bisogna completamente dimenticare ciò che si è fatto, ma alla fine c'è sempre qualcosa che ti pizzica da dietro o che ritorna. Oppure vedi gli altri che con certe cose vanno più avanti di te, a livello economico, non culturale. Gente che ferma la cultura, mentre pensando che facendo delle cose avveniristiche da fantascienza avrei ottenuto chissà cosa... ma poi gli altri tornano indietro, anche alla pittura-pittura su tela e mi chiedo: "Ma allora dove stiamo andando?".
TG: So che non vuole far nomi, ma a chi pensa? Ad un movimento in particolare?
AM: Sai, ad una delle più importanti correnti di quei 20 anni che ancora puoi trovare in giro... In effetti sono due le correnti principali, uno è un gruppo d'artisti che nasce nei pressi di Torino e l'altro tra Napoli e Roma. Costoro fermano completamente la cultura, secondo il mio punto di vista. Non hanno un approccio verso il futuro, e poi mi accorgo che sono quelli che la gente vuole. E' così che mi vengono dei ripensamenti... Invece no, perché devo andare avanti per la mia strada, senza fossilizzarmi su certe cose, perché penso che ogni mattina posso alzarmi, magari con un mal di testa diverso, da quello che ha avuto ieri e non posso assolutamente mettermi a fare quello che ha fatto una settimana fa, o due settimane fa, o un anno fa. Allora penso che quest'idea mi dia la spinta per andare avanti ed uscire dalla mischia di coloro che si ripetono in continuazione. Io mi ritengo fortunato perché ho fatto quello che mi è piaciuto fare e che mi piace fare, anche perché non so fare altro, al di fuori di quello che faccio.
Interferenza Amorfa - 1966 di Armando Marrocco
Il cilindro di plexiglass passando davanti ai quadrati ne deforma l'immagine. E' un'opera che può essere appesa a parete, o appoggiata su un tavolo.
Armando, nel suo ufficio, è seduto su una sedia pieghevole Plia di Castelli (disegnata da Giancarlo Piretti nel 1968) che è il tipico prodotto del design e dei materiali utilizzati in quegli anni. La sedia Plia è un'icona del design italiano nel mondo.
TG: C'è una sua tecnica preferita che le ha permesso di fare delle opere manualmente e che le ha dato particolari soddisfazioni?
AM: Ogni volta che m'incammino in una nuova esperienza, quell'esperienza, in quel momento, è la migliore. Quando ho incominciato a esplorare la fotografia io ho cercato d'ottenere quasi l'impossibile da quel mezzo, ovviamente non ero alla ricerca di uno scoop o di un servizio di cronaca, ma di realizzare quanto di meglio potevo fare con quella tecnica e se io non riuscivo ad ottenere quello che mi ero prefissato... non ero contento. E quando riuscivo a trovare la situazione che ricercavo, quella per me era la migliore che potesse esistere in quel momento. Ho lavorato tutti i possibili materiali. Una volta, con un fisico, avevamo pensato di condensare l'aria per fare delle sculture nell'aria e solidificare un certo tipo di elementi. C'eravamo quasi riusciti, poi lui emigrò negli Stati Uniti e terminò la nostra collaborazione. Cercavamo anche di colorare l'aria. Si chiama Fornari e vive in Nebraska, credo sia impegnato nel campo della robotica. Volevamo fare qualcosa di nuovo e diverso dai lavori sull'immaterialità di Yves Klein, o dal fiato o del sangue d'artista di Piero Manzoni. Sarebbe stato un modo per allargare gli interessi dell'uomo verso il cosmo, ma non è facile fare qualcosa che interessi le masse ed i grandi numeri. Ho invece realizzato il mio prato di molle “Giardino Ludens” che si muove col vento, oppure “Habitat per formiche”, progetti che s'agganciano all'Universo. Ho fatto uno studio approfondito sulla sezione aurea, partendo da Luca Pacioli, a Leonardo, a Leonardo da Pisa, detto il Fibonacci, che poi ha ripreso Mario Merz coi numeri. Io ho sempre lavorato coi numeri e con la matematica: anche le cose che faccio adesso sono sempre legate alla sezione aurea, alle spirali, alle spirali logaritmiche. Questa è un po' la mia storia.
TG: Lei da che famiglia arriva? E la sua famiglia come ha visto la sua decisione d'intraprendere questa carriera e lasciare l'insegnamento?
AM: (Ride) Malissimo. Nel 1959, periodo subito dopo la guerra, c'era ancora molta fame e poco lavoro. Io con l'insegnamento mantenevo la mia famiglia, poi ad un certo punto, lasciato lo stipendio mio padre non la prese molto bene, era un uomo severo. Per qualche anno non mi rivolse la parola, non voleva sapere più niente di me. Poi, una volta che ha capito che riuscivo a camminare nel mondo dell'arte con le mie forze ci siamo riavvicinati. Ho lavorato molto anche per la Chiesa, ho realizzato porte bronzee, altari, presbiteri in marmo ed altri materiali tradizionali.
TG: Suo padre era un artigiano? Le ha trasmesso qualche capacità tecnica?
AM: Sì, mio padre era un artigiano, era un muratore. E per non tenermi in mezzo alla strada, all'età di 7 anni mi portò a lavorare presso il laboratorio di uno scultore. In un laboratorio dove scolpivamo santi, madonne, foglie d'acanto... Possiamo dire che in qualche modo vengo dal Rinascimento: bottega dello scultore, dello scalpellino, del falegname. Vengo da questo mondo, so lavorare qualsiasi materiale, ma ogni oggetto ha bisogno d'essere realizzato nella materia che gli compete. Non in altre. E' l'oggetto stesso a suggerirmi in che materiale vuole essere costruito.
Un'altra opera del periodo in cui Armando si era dedicato all'Arte Cinetica: Multispazi illusori.
TG: La passione per la geometria e la matematica invece da dove è arrivata?
AM: Dalle esperienze di lavoro. Ho collaborato con architetti ed ingegneri, con l'architettura, con i pieni e con i vuoti... I movimenti del Novecento, Futurismo Dada, Bauhaus, Architettura Organica, eccetera. Non sono architetto, ma quando metto in scala uno schizzo o un disegno devo conoscere bene ogni tipo di geometria. Devo sapere come si costruisce un poliedro, come disegnare una prospettiva. E' la conseguenza di una situazione culturale che ti porta a volerne sempre sapere di più e a studiare come realizzare i miei progetti.
TG: Che atmosfera si respirava nella Milano degli anni '60? Chi conosceva? Chi frequentava?
AM: Dopo un paio di mesi che ero a Milano ho conosciuto Piero Manzoni e lo aiutai a trasferirsi da uno studio all'altro. Purtroppo però lui morì di lì a poco, nell'aprile del 1963. Lucio Fontana lo conoscevo già. Conoscevo tutti: Rodolfo Aricò, Giorgio Kaisserlian, Guido Ballo e Marco Valsecchi, il Gruppo T con Boriani, De Vecchi, Varisco, Colombo, Mari, Anceschi.
TG: Negli anni '60 ha partecipato all'Arte Programmata, poi per una sua continua ricerca ha cambiato stile. Perché? Quel periodo era finito? Era giusto cercare e sviluppare altre idee, o per quale altra ragione si è dedicato ad altro?
AM: Sì, ho fatto cose apparentemente diverse perché il filo conduttore tra un lavoro e un altro l'ho sempre conservato. Ho relativamente fatto altro genere di lavori perché i gruppi che si erano formati in precedenza, sia il Gruppo T che il Gruppo N di Padova, o il Gruppo Mid si erano già formati ed erano piuttosto chiusi verso nuovi elementi. Non c'erano possibilità di trovare spazi tra questi artisti. Avevo parlato con Guido Ballo, aveva visto i miei lavori e lui mi disse di parlare con Gianni Colombo, ma io e Gianni eravamo coetanei, le esperienze stavano nascendo insieme. Guido mi disse di non preoccuparmi, Colombo riconobbe l'importanza del mio lavoro, ne parlò all'interno del gruppo, ma non si aprirono ad un nuovo elemento. A quel punto io dissi: "Pazienza...". Sapevo che avrei fatto le mie esperienze e ugualmente feci le mie mostre coronando quel periodo con diversi premi. Uno fra tutti il Premio Silvestro Lega ex-aequo con Mario Nigro, nel 1967: premi d'arte programmata, cinetica, optical. Commissari furono Gillo Dorfles, Umbro Apollonio, Piero Dorazio, Mauro Regiani, Giancarlo Cavalli, Filiberto Menna ed altri che non ricordo del Comitato esecutivo.
TG: Sarebbe diventato ripetitivo...
AM: Esatto, sarei diventato ripetitivo, non sarei più stato io. Mi sarei preso in giro a copiarmi.
TG: Da parte dei galleristi esisteva la richiesta di produrre quel tipo di lavoro?
AM: Non in quel periodo, ma adesso che c'è una riscoperta di quell'arte sì. Negli anni 1960 s'è aperto il mondo. Le macchinette di Boriani o di Colombo, tranne in qualche galleria importante come la Marconi, non venivano molto considerate. Questi artisti erano anche insegnanti, mentre io sono riuscito a concentrarmi sul mio lavoro. Ho voluto fare questo e grazie a Dio ci sono riuscito, riuscendo a vivere discretamente.
AM: Certo, abbiamo fatto molti lavori insieme ed insieme a Franco Solmi e Marilena Pasquali della Galleria d'Arte Moderna Comunale di Bologna abbiamo fondato il Gruppo dei Celebranti.
TG: Come le è venuto in mente di fare “Uomo e Formica?
AM: Si tratta di un passaggio filologico, una volta che tu hai fatto un tipo di struttura naturale, come Giardino Ludens, tra artificio e natura, di elementi artificiali che hanno un rapporto con la natura come se fossero piante, ho sentito la necessità d'andare oltre e alla fine torno alla natura come esempio per l'uomo. L'organizzazione delle formiche è quasi perfetta, non c'è rivalità tra le formiche, se non tra formicaio e formicaio.
TG: Adesso sembra che abbiano scoperto che c'è un 25% di formiche che non fanno assolutamente niente...
AM: Certo, sono le formiche otri, sono quelle che si riempiono la pancia di sostanze liquide, come gli afidi. Quando le formiche hanno necessità di nutrire le pupe, stuzzicano le formiche otri che rilasciano una sostanza nutriente, hanno la pancia gonfia, ma non fanno niente.
TG: Per quanto tempo ha studiato questa società quasi perfetta? E quando ha iniziato a fare le prime mostre?
AM: Alla fine degli anni 60. Studio che poi è sfociato in mostre come quelle che organizzava il Centro Apollinaire di Milano, creata e diretta da Guido Le Noci che rappresentava eventi artistici in prima mondiale.
Esposero Yves Klein, Mimmo Rotella, César, e tutti gli artisti del Nuveau Réalisme. Presentai la mia esperienza prima da Toselli. Ci chiudemmo dentro la galleria in dieci artisti per più di una settimana. Non potevamo uscire, c'erano i chiodi sulle porte, altro che: “Il grande fratello” (ride). Lì volevamo vedere che cosa sarebbe successo a chiudere dieci artisti insieme. L'unica cosa che ci teneva svegli era la musica, uno di noi aveva portato una chitarra ed un sintonizzatore (in sostanza una scatola che trasformava i suoni ndTG) ed insieme cantavamo. Io portai un formicaio.
TG: Che musica le piace Maestro?
AM: Mi piace il jazz, meno la lirica o la musica da camera, anche se adesso le sto rivalutando. Io ho partecipato molto a performance in cui la musica era molto importante, come nei concerti. Con il gruppo Hyperprism di Perugia abbiamo organizzato numerosi spettacoli, usando strumenti non convenzionali creati da noi.
TG: Lei suona?
AM: Io non suono, rompo le scatole, ovvero faccio delle cose indispensabili all'interno della musica, in quel momento in cui entro in scena. Le mie molle sono degli strumenti musicali, sono d'acciaio armonico e quando si toccano una con l'altra suonano. Ho fatto tante cose anche con la musica. Ho conosciuto John Cage, lui per un suo concerto a Perugia all'Università per gli Stranieri scelse un oggetto creato da me (una specie di vaso di ceramica) e con quell'oggetto il maestro Fernando Sulpizi suonò la sua musica. Anche se in quel caso era il silenzio a suonare per lui.
TG: La musica le ha dato ispirazione per la sua arte?
AM: Certo, non solo la musica, anche il sacro. Perché l'arte per me è sacra, anzi spirituale.
TG: Dicono che l'arte avvicini a Dio, come la musica...
AM: Certo, il sacro è indispensabile per la mia opera.
TG: Lei ha una forte fede religiosa?
AM: Sono credente e praticante.
TG: C'era molto fermento culturale nella Milano degli anni '60?
AM: Per me che li ho vissuti, gli anni '60 sono stati veramente gli anni d'oro. Negli anni successivi si è andati avanti grazie alla spinta che è avvenuta in quel periodo. In seguito ho visto molti plagi ed alcuni, non sapendo più che cosa fare, sono tornati alla pittura.
Personalmente ho proseguito con le mie ricerche, con il mio lavoro.
Una grande tela sensibilizzata con emulsione fotografica e impressionata come un fotogramma da Armando Marrocco
AM: La fotografia, oggi più che mai, è importante, però non vedo abbastanza ricerca in questo campo. Si vuole un'immagine fatta bene e questo sembra essere tutto. Ultimamente, il bianco e nero sta sparendo a favore del colore e del realismo. Non voglio citare nomi, ma ci sono fotografi molto noti che non arrivano alle conclusioni di una Diane Arbus o di un Muybridge, non arrivano a questo senso della ricerca. Pensiamo a Muybridge ed al suo sistema di effettuare una serie di scatti con 20 fotocamere che coglievano il movimento nell'istante giusto. Basaglia era un altro genio in questo campo. Si salvano pochi fotografi, tra questi Ugo Mulas grande maestro. Ero con Ugo quando scattò la famosa fotografia di Lucio Fontana nel suo studio, davanti l'unica tela lunga con un taglio verticale.
TG: Lei che ha vissuto per una gran parte del '900 e che adesso sta vedendo questo nuovo millennio, dove le sembra che stiamo andando?
AM: C'è stato un artista che s'è sollevato dalla Terra per vedere le cose dall'alto, senza morire, questo è importante. Distaccarsi per poi ritornare sulla Terra vedendo le cose nella loro contemporaneità: Yves Klein. Lui ha fatto il blu creando il blu, il rosa e l'oro, oltre che per gli altri, principalmente per se stesso. Una volta che hai lavorato per te stesso, sei già ricolmo, non è necessario ripetersi, o cambiare appena appena... invece di un elemento inserirne 4. Non cambia niente, il metodo è sempre quello. Invece bisogna spaziare per quante strade ci sono e percorrerle tutte.
TG: Molti asseriscono che il vero artista è l'artista totale, colui che sa lavorare tutto: vetro ceramica, pittura, fotografia, pietra, marmo...
AM: Tutto, bisogna sapere fare tutto, chiaramente con i mezzi a disposizione. Parlavo di Klein, lui è riuscito a staccarsi dalla Terra ed entrare proprio nel blu ed avere la vera coscienza che permette di vedere le cose dall'alto, per essere una persona assoluta col rosa ed il suo oro, che poi sono i colori mistici di Cristo. Io ho scoperto l'ex-voto di Klein. Questo non lo sapevi, eh? Lui era devoto di Santa Rita da Cascia e negli ultimi anni della sua vita Klein si recava proprio a Cascia a trovare Santa Rita. E' stato in Umbria 3 o 4 volte lasciando alla santa un suo omaggio, fino a quando nel 1961, prima di morire, ha lasciato lì il suo ex-voto, chiedendo che le sue opere venissero capite da tutti e che le sue fontane di fuoco fossero apprezzate da tutti, che il suo lavoro potesse essere d'ispirazione alle nuove generazioni. Tutto è rimasto scritto dentro una cassettina all'interno di una fessura. In tre compartimenti, uno blu, uno rosa ed uno d'oro. Dietro c'erano anche 3 piccoli lingotti d'oro da 3 grammi che lui aveva fatto fondere e inserire nell'ex-voto. Io ho scoperto questa cosa. La mistica di un'artista è una cosa importante che spesso noi non consideriamo.
TG: Chi è l'artista di quegli anni che stima maggiormente?
AM: Stimo molto Jean Tinguely che purtroppo adesso non c'è più. Lo conobbi personalmente.
Armando Marrocco (a sinistra) con il fotografo Tiziano Ortolani che era sposato con Daniela Palazzoli, figlia di Peppino Palazzoli direttore della Galleria Blu.
TG: Lei per che cosa vorrebbe essere ricordato? Per un'opera o per un concetto?
AM: La mia strada è già dentro le cattedrali e le basiliche. La porta monumentale di bronzo della Cattedrale di Lecce è già lì, poi per il resto è normale entrare nelle case e nei musei.
TG: Torna ancora l'uomo rinascimentale...
AM: Certo, certo, le porte del Santuario di Santa Maria di Leuca le ho realizzate in bronzo e staranno lì per molto tempo. Nel Santuario di Santa Rita a Cascia ho lavorato per 25 anni.
TG: Quindi esiste un'arte classica? E' ancora importante?
AM: Certo. Però a committenza. Non la presenterei mai in galleria.
TG: A proposito, com'è il suo rapporto con i galleristi?
AM: Guarda, m'è andata abbastanza bene. Dal '65 in poi, ogni anno ho presentato una personale o addirittura due. Negli ultimi anni ne presento di più, quattro o cinque all'anno.
Armando Marrocco, 76 anni, Artista
TG: Sugli intrecci cosa mi vuol dire?
AM: Nascono in quel periodo. La galleria “Il Cenobio” di Milano, poi è diventata il Cenobio Visualità fece una mostra del bianco sul bianco dove c'era anche Manzoni, Fontana... Era il 1964, ed in quell'occasione io portai un mio intreccio di cartone che ebbe un successo immediato. Anche questi miei lavori erano basati sullo studio della sezione aurea
Armando ci mostra un dettaglio dei suoi intrecci
TG: Allora non potevano non piacere.
AM: No, perché sono basati sull'equilibrio e la perfezione: la proporzione divina di Luca Pacioli e Leonardo.
TG: Grazie Maestro è stato molto gentile.
Armando Marrocco nel suo studio