Marco Grassi nel suo laboratorio di via Tertulliano
Nikkormat FTN e Kodak Colorplus 200
Le Grand Verre fu un'opera ambiziosa ed innovativa che assorbì Marcel Duchamp per circa dieci anni della sua vita e voleva stravolgere la visione dell'arte pittorica che considerava il quadro come una finestra sul mondo in cui esistevano diversi piani che consentivano, attraverso la prospettiva, i rapporti di contrasto, d'illuminazione e di colore di porre il soggetto in un sistema illusoriamente tridimensionale.
Nel grande vetro lavorato da Duchamp, secondo una tecnica che poneva delle lastre di metallo inciso, fili di piombo polvere e pittura ad olio all'interno di un supporto trasparente e fragile, veniva eliminato il rapporto tra i diversi piani prospettici, non esisteva più un soggetto principale ed uno sfondo, ma semplicemente un'unica dimensione all'interno del vetro.
Duchamp ha aperto un percorso che ha rivoluzionato tutta l'arte moderna, non cercando un canone estetico quanto un'azione concettuale al tempo stesso delirante e minuziosa. Le sue opere hanno segnato tappe importanti del pensiero moderno e Le Grand Verre rimane qualcosa di enigmatico e depistante, in quanto è incorso in un incidente che ne ha visto la rottura durante un trasporto ed ha lasciato il suo autore nell'imbarazzo di dover scegliere cosa fare con il suo lavoro più prezioso distrutto.
Duchamp decise d'accettare la fragilità dell'oggetto che stava trattando come una caratteristica intrinseca dell'opera, i pezzi furono rimessi insieme ed il quadro-non-quadro si trova tutt'ora al Philadelphia Museum of Art.
Partendo da questo presupposto che vede l'errore, l'imprevisto e la materia presente in natura come una specie di fattore concatenato al processo artistico, Marco Grassi e Matteo Bologna stanno lavorando ad un progetto che s'ispira alle trasparenze ed alla loro inafferrabilità. Tony Graffio
Marco Grassi a fianco di un suo negativo-non negativo.
Tony Graffio intervista Marco Grassi sul progetto del Grand Verre milanese
TG -Ciao Marco, spiegami chi sei e cosa fai.
MG -Sono Marco Grassi, in
arte Pho, un artista nato e cresciuto a Milano, vengo fuori da
un'esperienza legata alla strada, ai graffiti ed alla street art, se
la si vuole chiamare così, ho 39 anni.
Adesso, insieme a Matteo
Bologna stiamo lavorando a questo progetto che si chiama “Le Grand
Verre”, in omaggio all'omonima opera di Marcel Duchamp, un'idea che
abbiamo avuto per ottenere un'opera in cui si mischiano le tecniche
della fotomeccanica, o della fotografia tradizionale analogica e
provare a vedere cosa succede unendole alla pittura. Volevamo
utilizzare materiali che non fossero per forza negativi fotografici e
sostituire alla trasparenza fotografica, la materia, come carte e
materiali vari per poi provare a stampare e sviluppare. Noi
realizziamo dei negativi fatti a mano che possono essere costituiti
da applicazioni di materiali vari: pittura, accumulazioni, cere e
tutti quegli elementi che ci permettono di giocare sulle trasparenze
perché poi questi negativi fatti a mano andranno dentro un
bromografo di grandi dimensioni che abbiamo costruito noi con del materiale riciclato per ottenere i nostri rayographs, ovvero
delle fotografie a contatto.
TG -Chi collabora con te
a quest'idea?
MG -Siamo Matteo Bologna
ed io. Siamo vecchi amici, ex compagni del liceo artistico, Matteo è
stato per quasi 10 anni in Brasile, è tornato a vivere a Milano ed
abbiamo deciso di riprendere la collaborazione creativa, dopo che per
anni avevamo fatto graffiti insieme, sotto il nome di 16k che era la
nostra crew. Dopo quell'esperienza Matteo ha svolto l'attività di
videomaker e fotografo, mentre io sono rimasto “un pittore
tradizionale”.
Rincontrandoci lui
portava con sé questa grossa esperienza della fotografia, mentre io
con l'esperienza della pittura abbiamo deciso di vedere se c'era modo
d'unire queste due esperienze e probabilmente i rayographs sono
stati lo strumento che ci ha facilitato maggiormente la maniera per
incontrarci.
Il grande bromografo auto-costruito è al centro del laboratorio di Marco Grassi.
TG
-Qui dove ci troviamo adesso è il tuo laboratorio?
MG
-Sì, questo è il mio laboratorio ed il 22 maggio inaugureremo questo spazio e tutto il percorso del Grande Verre che
ormai ha 3 anni, perché da quando siamo qui, ci occupiamo di questo
progetto.
Quando
Matteo ritornò a Milano mi contattò e mi chiese se avevo un
piccolo spazio a disposizione per lui per poterne ricavare una camera oscura
o una piccola saletta di montaggio.
Io
gli risposi che non c'erano problemi. Da lì, in realtà, stando tutti
i giorni a stretto contatto è arrivata quasi spontaneamente l'idea
di provare a fare qualcosa insieme.
Già
l'anno scorso a Berlino avevamo presentato questo percorso mostrando
delle proiezioni nella galleria con la quale lavoro in Germania già
da 6 anni, la Circle Culture Gallery. Trattandosi di una collettiva,
abbiamo fatto vedere solo parzialmente i risultati della nostra
ricerca, mentre a breve avremo modo di dare un respiro più ampio al
progetto e riuscire a far capire meglio quello che stiamo facendo,
perché da una parte ci saranno i rayographs,
dall'altra proiezione di diapositive positive di piccolo formato
dipinte e realizzate a mano. Questi lavori,in realtà sono collegati,
in quanto abbiamo iniziato a sperimentare sui vetrini delle
diapositive, per poi capire che si poteva offrire un prodotto
culturale diverso, andando ad agire direttamente su un quadro
fotografico di grande formato che risulta essere un pezzo unico
fruibile in modo più tradizionale.
Una
volta trovati quei materiali semitrasparenti che funzionavano nelle
proiezioni, abbiamo ricreato un'esperienza analoga anche con il
bromografo, andando a sensibilizzare lastre di materiali diversi con
una gelatina fotografica fotosensibile e frapponendo poi elementi già
sperimentati tra la luce del bromografo e la superficie da esporre.
TG
-Siete partiti dal piccolo per espandere poi la vostra esperienza in
modo da colpire maggiormente la fantasia e l'entusiasmo del pubblico?
MG
-Siamo partiti dal piccolo perché Matteo aveva fatto già
un'esperienza del genere negli anni 1990. Accorgendoci che una volta
proiettati i suoi lavori uscivano dei quadri astratti stupendi; lì
abbiamo capito che c'era del materiale valido sul quale potevamo
lavorare insieme, perché anch'io ho un'esperienza astratto-formale
come pittore.
Continuando
a lavorare con le diapositive abbiamo capito quali erano i materiali
più interessanti da utilizzare come le veline e le trasparenze.
Abbiamo
costruito un primo bromografo di un metro per un metro col quale
abbiamo iniziato ad ottenere i primi risultati, poi ne abbiamo
costruito un altro di un metro e mezzo per un metro e mezzo con il
quale abbiamo prodotte dei rayographs
più importanti che poi abbiamo portato a Berlino che erano pezzi di
m. 1,4 X 1,2 emulsionati a mano. Per quanto non sia fotografia
tradizionale poiché le immagini vengono stampate a contatto, il
risultato è abbastanza importante.
TG
-Come definiresti questo lavoro, una ricerca tecnica? Concettuale? Di
materiali? O estetica?
MG
-Credo che sia un insieme di tutte queste cose perché c'è
chiaramente una ricerca tecnica legata alla fotografia, all'emulsione
a alla luce e dei rapporti che si creano tra la luce e la materia.
C'è una ricerca concettuale perché c'è quest'idea d'andare a
recuperare dalla strada tutta una serie di elementi, come se noi in
strada avessimo portato tantissimo negli anni e adesso
incominciassimo a prendere quello che ci serve, proprio dalla strada. Quindi c'è un'idea di
recupero, oltre che un'idea compositiva che è concettuale ed è
astratta e poi tutti gli altri aspetti che tu hai citato.
TG
-Volevo chiederti una cosa che potresti anche prendere come una
provocazione, ma io volevo sapere se questo lavoro è più il recupero di vecchie tecniche o l'elaborazione di un nuovo metodo
creativo?
MG
-Per andare avanti bisogna sempre guardarsi indietro, noi
assolutamente recuperiamo una serie di tecniche antiche che andiamo
leggermente a decontestualizzare per poi raccontare il contemporaneo.
Sì,
è vero utilizziamo tecniche antiche perché hanno un aspetto
artigianale molto più forte dove l'espressività per noi è molto
più libera. L'idea di potersi creare un negativo non impedisce di
affiancarci un negativo reale per lavorare con la “realtà” che
il negativo tradizionale riesce a catturare, o qualcosa di molto
vicino al reale. Mentre l'idea è di poter modificare il negativo non in
post-produzione, ma fisicamente che non è più il negativo che passa
attraverso un ingranditore, quindi non si tratta di una pellicola.
Noi trattiamo con
negativi di circa m. 1,50 X1,50 che diventano dei quadri.
Quando
io lavoro sul negativo è come se lavorassi su una tela. Questo
lavoro è tutto un insieme di situazioni che considerarlo solo la
rivalutazione di una vecchia tecnica mi sembra un po' riduttivo,
perché non è così. Non perché ci sia qualche problema, l'idea è
quella di riprendere dei vecchi metodi abbandonati, l'emulsione
liquida che noi utilizziamo è qualcosa di sempre più difficile da
trovare, probabilmente tra qualche anno, quando il nostro fornitore
si stancherà di farla arrivare dalla Germania, non ci sarà nemmeno
più in Italia perché magari saremo solo in 5 ad utilizzarla,
probabilmente allora si perderà anche quella possibilità d'utilizzare un
prodotto già pronto.
Effettivamente
anche la fotografia in pellicola ed il cinema stanno scomparendo.
L'ultimo
film prodotto in Italia in pellicola è stata: “La grande
bellezza”, ma perché c'erano i mezzi per poterlo fare, bisognerà
vedere se ce ne sarà un altro ancora. Io ne parlavo l'altro giorno
con Silvio Soldini di questa cosa.
Un rayogramme di Grassi-Bologna ancora nella maxi bacinella di lavaggio posizionata sopra lo scarico delle acque reflue.
TG
-Tornando all'emulsione liquida della Rollei che state usando,
ritenete che sia abbastanza valida o no?
MG
-Stiamo sperimentando. Ci sono stati dei difetti che per noi
potrebbero anche non essere tali, in quanto noi dialoghiamo molto con
l'errore: uno degli aspetti concettuali del nostro lavoro è
l'accettazione dell'errore. Le Grand Verre,
nasce proprio da questa cosa qua. Siccome Le Grand Verre fu
un'opera che si ruppe inavvertitamente e diede molto da pensare a
Duchamp che non seppe se rifarla, se accettarne l'errore, accettare
la natura del vetro che in effetti è fragile e si può rompere, in
questo senso il nostro lavoro ha un aspetto Dada molto concettuale.
L'errore addirittura può diventare il soggetto principale
dell'opera, anche se era da noi completamente escluso ed ignorato,
perché il caso può far sì appunto che vengano fuori delle cose
inattese.
Qua,
per esempio ci sono uscite delle crepature (mi mostra una parte sul bordo del suo rayogramme) perché abbiamo sciacquato
l'immagine in maniera troppo energica ed è venuta via l'emulsione.
Io adesso non so dirti, non essendo io un chimico, se è un problema
dell'emulsione o del nostro operato, però alla fine ne è uscita una
texture che va a dialogare con quegli effetti che ricerchiamo noi,
perché noi cerchiamo di restituire quest'idea di vecchio muro
distrutto dal tempo, di mattoni e materiali abbandonati in strada.
Fin
che ci sono degli errori tecnici nell'emulsione che in qualche modo
vanno nella direzione che noi stiamo cercando, là l'errore può
diventare assolutamente attore dell'opera. L'emulsione,
personalmente, io la lavoro da tre anni, quindi non ne ho
un'esperienza tale da poterne valutare la qualità. Non me la sento,
sinceramente, però di darne un giudizio negativo. Per quello che serve a noi, per ora, funziona.
Bacinella di fissaggio de: Le Grand Verre.
Bacinella di sviluppo de: Le Grand Verre.
TG
-Ricapitoliamo un po' quali sono i vostri strumenti di lavoro: un
acetato, o un vetro?
MG –Sì abbiamo usato vari materiali trasparenti; ultimamente abbiamo
recuperato dei pezzi di vetro. A proposito di vetro, durante la
manifestazione che c'è stata qui a Milano contro Expo 2015, ci sono
stati gli incidenti ed io sono andato a fare delle fotografie per me
stesso, ma non di reportage. Per caso ero lì ed ho scattato
banalmente col mio telefono. Ho fatto una fotografia che mi è
rimasta ed ho fatto vedere anche a Matteo, di questa vetrina di un
cristallo che sarà stato spesso 1,5 cm completamente distrutto.
Sembrava un'opera. Non perché questo fatto si portasse dietro
motivazioni politiche, della banca e dei no global, ma perché nel
suo concreto, la stesura di scritte, sicuramente fatte prima della
rottura e poi l'insieme di questi elementi di vetro ha creato quasi
una scultura cubista. Da lì, poi mi è venuto il desiderio di
riportare nel bromografo qualcosa del genere, in maniera
grezza, casuale, senza stare troppo lì a ragionare sulla
composizione, o chissà che cosa, quasi fosse un'operazione
esistenzialista, semplicemente cercando di riportarne il risultato, senza neanche troppo
volerne calcare l'aspetto politico.
Questo per dirti che i supporti
non devono essere per forza degli acetati. Abbiamo anche provato a
utilizzare anche dei compensati leggeri, tutto quello che può avere
trasparenza va bene, in funzione anche delle lampade che utilizziamo,
perché il principio è lo stesso della radiografia del braccio.
Avessimo
a disposizione i raggi X, potremmo quasi radiografare anche una
lastra d'acciaio.
TG
-In sintesi, per produrre i vostri rayograph a voi servono
delle lampade. Che tipo di lampade?
MG –Si tratta di lampade banalissime, lampade ad incandescenza da 42 Watt. Abbiamo sistemato una ventina di queste
lampade in un bromografo che abbiamo costruito con pezzi di librerie
di amici, quindi c'è anche questo aspetto del recupero e del
riciclaggio che a noi piace. L'unico pezzo che abbiamo dovuto
comprare è stato un grande vetro dello spessore di cm 1,5 che è
poi la superficie sulla quale noi andiamo ad appoggiare i nostri
“negativi” che poi non sono veri negativi; adesso qua è
appoggiata una carta opalina plastificata con sopra un'accumulazione
di cera fusa e poi distrutta. Questi materiali ci restituiscono un
effetto simile ad un muro scrostato.
Marco Grassi, artista, 39 anni
TG
-L'emulsione dove viene stesa?
MG –L'emulsione la stendiamo su una carta 100% cotone della Fabriano sui
300 grammi di peso. Adesso invece, per la prima volta stiamo provando
a stampare direttamente su legno. Si tratta di un compensato di
circa un centimetro di spessore preparato con una mano di fondo alla
cementite. I bordi e la parte posteriore li trattiamo col flatting
per impermeabilizzarne la superficie che verrà esposta ai bagni di
sviluppo.
Abbiamo provato anche a stampare su ferro, ferro arrugginito,
metalli, vari, abbiamo fatto un po' di sperimentazione ed abbiamo
capito che l'emulsione liquida è comunque un compromesso.
TG
-Ci dipingete sopra, alla fine?
MG
-No, questo no, sarebbe per me una forzatura. Dipingere prima il
negativo è tutto quello che facciamo. Dipingere sulla fotografia è
una cosa che non vedo di buon occhio.
TG
-Io, da fotografo, ho qualche dubbio sull'emulsione liquida perché
non credo possano avere una grande stabilità nel tempo, avete previsto una degradazione di
questo materiale?
MG
-Sono materiali che vanno fissati e protetti; effettivamente si sono
create delle crepature e dei distaccamenti di emulsione ai bordi di
alcune tavole che abbiamo utilizzato, studieremo un sistema che
permetta un migliore aggrappaggio di questi prodotti chimici alle
superfici delle nostre opere.
TG
-Quali sono gli aspetti che vi interessano maggiormente in questo
lavoro?
MG –Rispetto anche a quello che dicevamo prima sui rayographs, quello
che a noi interessa è poter analizzare e fermare attraverso
l'”immagine fotografica” tutti quegli effetti, non vorrei
chiamarli speciali perché non mi piace il rimando concettuale, ma si
tratta poi di quello, in sostanza, che avvengono attraverso il
passaggio della luce nella materia.
Se
prendiamo, ad esempio, la singola striatura della pennellata, il
deposito di cera, o la singola goccia di un dripping, posso
dire che un conto è fotografarle o vederle su una tela; un'altra
cosa è vederle fissate nel tempo su una tela attraverso il passaggio
della luce. Quella forma non cambia, a meno che non la sfochi, assume
delle presenze quasi metafisiche nello spazio. Dei fantasmi. Questo
perché tra la leggerezza della pennellata e l'intrusione della luce
era stata disegnata una forma che se tu andavi a fotografarla altre
cinquantamila volte, non ti sarebbe mai venuta così. Quello che
interessa noi è proprio quest'intrusione della luce all'interno
della materia e tutto quello che ne deriva.
Matteo Bologna, artista multimediale, 39 anni
TG
-Bene, mi sembra di capire che voi siete ancora in una fase di prova
e sperimentazione, però mi stavi dicendo che stavate anche
organizzando una mostra, è così?
MG
-Sì è vero, siamo ancora in fase di sperimentazione e venerdì 22
maggio faremo una mostra all'interno del capannone dove ci troviamo
adesso e siamo già in fase di allestimento per poter accogliere le
opere. Ci teniamo a farlo in questo posto che è il nostro
laboratorio, in modo da lasciare il bromografo, le vasche e tutta
l'attrezzatura che usiamo per la nostra produzione artistica, per poter far comprendere meglio al visitatore ciò che facciamo.
TG
-Quante opere esporrete?
MG
-Ci saranno tre grandi rayographs di circa m. 1,4 X 1,2, ci sarà
una proiezione di diapositive con 48 immagini che abbiamo già
presentato a Berlino nel 2014 ed infine ci saranno anche una serie di
opere di Jaybo Monk che è il terzo artista impegnato in questa
impresa.
Jaybo Monk, artista d'origine francese
Un oggetto inutile ideato da Jaybo Monk
Jaybo
è un mio caro amico di Berlino col quale ho già collaborato in
passato, anche lui trova le sue radici nella Street art ed
oggi è un artista multimediale che si esprime con la fotografia, la
pittura, la scultura. E' il terzo elemento del progetto: “Le Grand
Verre” ed il 22 maggio segnerà la prima volta in cui Jaybo
parteciperà al nostro lavoro portando altri oggetti che io non ho
ancora visto dal vivo, ma soltanto in fotografia.
Il suo arrivo durante la mostra sarà l'occasione per ufficializzare la sua
presenza nel nostro gruppo, anche se il suo apporto non s'è ancora
manifestato attraverso il metodo che abbiamo in mente che è quello di
mischiare le nostre idee su un unico soggetto.
Io e Matteo stiamo
già operando in questo modo, anche se non è una cosa sempre facile.
La
mostra è inserita all'interno di un evento che si chiama “Te
District” perché la proprietaria di tutto quest'area, la
signora Patrizia Macchi ha deciso di far conoscere meglio questo suo
spazio, sull'onda di un articolo uscito sul Corriere della Sera in
cui io ero intervistato, così come altri artisti presenti qui allo
Spazio Tertulliano in via Tertulliano n. 70. Vogliamo raccontare come
questo posto sia diventata una zona ad alta concentrazione di
creativi. Oltre a noi, qui c'è dotdotdot, un grosso studio di
grafica e progettazione multidisciplinare che fonde l'architettura, l'allestimento, il design con l'innovazione tecnologica. C'è Laboratorio Controprogetto, un laboratorio di progettazione e produzione d'arredi su misura, pezzi unici e allestimenti realizzati prevalentemente con materiali di recupero. C'è un pool di agenzie che operano nel settore della comunicazione e fanno capo al gruppo Promos, c'è l'Avantgarden Gallery che in questi giorni presenta una mostra con opere di Ozmo, Luca Font, James Kalinda e Scarful. C'è Bianca, un'altra Galleria d'arte, c'è Art e Musica, un'associazione culturale, Goganga, uno storico locale milanese che ha ospitato spettacoli di artisti come Vinicio Capossela, Zucchero Fornaciari, Alberto Camerini e molti altri. C'è un teatro, la Dance House di Susanna Beltrami, Baobab studio che dispone di una sala di posa di m 8 X14,50 e tutta una serie di
realtà che stanno venendo fuori molto bene nell'ambiente artistico
milanese. Io forse sono l'ultimo arrivato in ordine cronologico, in questo spazio.
Un collage di Marco Grassi
TG
-Cambiando un po' argomento, una domanda che può interessare i
collezionisti: a quanto vendete le vostre opere?
MG
-Le nostre opere sono già state vendute in galleria a Berlino e sono in
vendita al loro valore di mercato che è di 5.000 euro per un quadro
di m. 1,4 X 1,20. Ogni quadro, ovviamente è un pezzo unico. Non è né
una fotografia, né una pittura, ma un ibrido che sta a metà strada
tra pittura e fotografia. Invito te e tutti i lettori del tuo blog a
venire a vedere la mostra del 22 maggio e spero di rivederti anche
dopo, per farti conoscere Matteo e Jaybo che stanno facendo altri
lavori interessanti.
Matteo Bologna sta costruendo una grande fotocamera a lastre per proseguire ed integrare il progetto insieme a Marco Grassi e Jaybo Monk, apportando nuovi elementi di realtà.
TG
-Mi hai detto che anche Silvio Soldini s'è interessato al vostro
lavoro, come mai?
MG
-Soldini sta facendo un documentario su Milano, all'interno di un
progetto della sua casa di produzione che si chiama Lumière
che ha chiamato vari registi per raccontare Milano attraverso dei
cortometraggi. Soldini ha voluto servirsi dello sguardo di 3
personaggi diversi per il suo racconto, uno di questi personaggi doveva essere un artista, per cui lui mi ha contattato attraverso un
amico comune.
In un
primo incontro, Silvio ha cercato di capire quello che facevamo e
cosa avremmo fatto a breve, perché a lui interessava capire come
risolvere questa cosa velocemente, perché sembra che il suo documentario
verrà presentato alla Mostra di Venezia, il prossimo settembre.
Ho
spiegato a Soldini il progetto del Grand Verre, a lui è
piaciuto e quindi poi è venuto qui in diverse occasioni per fare le
riprese del nostro lavoro. Ha documentato l'intero processo creativo,
sia delle diapositive, sia stando qua una notte intera per filmare
quello che facevamo per creare una nostra opera, includendo nel racconto anche il
processo di sviluppo.
In
più c'è tutta una parte girata in esterni in cui mi si vede mentre mi muovo per la città mentre frequento dei luoghi dove io prendo
ispirazione. Io normalmente scatto molte fotografie in luoghi
dimenticati, abbandonati che per me sono stati importanti, tipo,
vecchie ferrovie, depositi dei treni, squat e così via, perché lì
io posso osservare degli elementi degradati della città che poi è
l'estetica che ci interessa.
Siamo
stati anche in un luogo dove io vado spesso a recuperare dei
manifesti pubblicitari che mi servono come soggetti dei miei lavori.
Abbiamo
vagato in vari posti, in una specie di no man's land dove puoi
trovare di tutto, con dei ritmi vitali propri di chi ci vive dentro.
Da questi posti emergono delle situazioni che nella città più
frequentata dalle persone è difficile che resistano. Mi riferisco a
certi materiali abbandonati che restano in certi spazi fino a
degradarsi completamente ed a perdere la loro identità, tipo le
traversine di legno dei treni, lastre di ferro arrugginite e cose
così che proseguono il loro processo degenerativo, nel corso del
tempo.
Una diapositiva che farà parte della proiezione del 22 maggio.
Un'altra diapositiva autoprodotta.
Un particolare di una diapositiva proiettata su un telaio di legno appoggiato alla parete dello studio del collettivo artistico.
La diapositiva è stata fatta con pezzi di nastro adesivo trasparente rigati con un taglierino. Il tutto ingrandito produce l'effetto che vedete in quest'immagine.
Matteo Bologna e Marco Grassi si confrontano durante la proiezione che hanno velocemente approntato per Tony Graffio.
TG
-Il tuo è perciò anche un lavoro sul tempo?
MG
-Sì assolutamente, a me interessa il rapporto tra la materia ed il
tempo, mi piace vedere come i materiali vengano recuperati nella
natura: il legno nei boschi, il ferro nella terra e come poi l'uomo
intervenga per trasformarli in materiali ed oggetti per costruire altre cose. Una
volta che poi questi prodotti non servono più e vengono abbandonati,
è come se ridiventassero indigeni al loro territorio originario,
perdendo l'aspetto artificiale che gli ha dato l'uomo.
Il rapporto
che la materia ha all'interno di una città, in una continua
trasformazione di forme, colori e sostanza è fonte di grande
interesse per me, perché questi processi naturali raccontano il
tempo che passa.
TG
-Possiamo dire che tu racconti nelle tue opere della luce, della
materia e del tempo?
MG
-Esatto, queste sono le tre situazioni che insieme vanno a creare la
nostra estetica.
Il capannone/laboratorio dove si sta sviluppando il progetto del Grand Verre milanese
Tutti i diritti sono riservati