Riprendo un discorso che Federico de Leonardis ha pubblicato di recente sul suo blog: Fuori dai denti per chiarire ulteriormente la posizione dell'artista milanese in riferimento alla sua visione su ciò che è arte e ciò che dovrebbe essere considerato più semplicemente come un'espressione umana al di fuori dell'arte.
Considerando inoltre le competenze culturali del De Leonardis, ho deciso d'ospitare in questo blog i suoi scritti ogni volta che egli lo ritenga necessario per diffondere il suo pensiero ed a qualificare maggiormente il livello degli argomenti trattati in queste pagine.
Essendo I Frammenti di cultura di Tony Graffio una specie di rivista digitale d'informazione, opinione e dibattito totalmente indipendente ed aperta a nuove collaborazioni, invito tutti coloro che abbiano qualcosa d'interessante d'aggiungere ai dialoghi già venutisi a creare, a partecipare senza indugio contattandomi via email a: graffiti.a.milano@gmail.com oppure telefonicamente allo 3339955876.
Allo stesso modo, invito anche artisti di ogni tipo a inviarmi estratti dai propri lavori originali o dalle proprie opere, per considerarne la pubblicazione su questo blog o per stabilire degli appuntamenti per conoscerci ed eventualmente fissare delle interviste e delle sessioni di riprese fotografiche (il tutto in modo totalmente gratuito), in modo da poter contribuire a diffondere nuovi prodotti culturali di artisti emergenti o già affermati. Tony Graffio
Balkan Baroque di Marina Abramovic
Crocifissione di Hermann Nitsch
Al mio intervento sul post dedicato alla Body art
(http://federicodeleonardis.tumblr.com/post/111364923507/sulla-body-art, Archive, febbraio 18) Tony
Graffio
(http://graffitiamilano.blogspot.it/2015/03/la-body-art-vissuta-da-3-donne-darkam.html)
risponde affermando il proprio interesse per le manifestazioni d'arte
fuori dai canali tradizionali e la sua curiosità per tutto ciò che
succede spontaneamente nel mondo dei “creativi”; allega poi
alcune fotografie di body artiste significative del valore
autopunitivo di certe azioni (rimando al link indicato chi desideri
prenderne visione). Intervengo ma senza alcuna intenzione di
criticare gli interessi del blog, che mi sembrano oltre che legittimi
anche onesti. Troppo spesso infatti l’arte autodefinitasi con la A
maiuscola tende a chiudersi nel suo orticello e disinteressarsi delle
manifestazioni creative spontanee, col risultato di finire per
gestire la sua solitudine (non è un mistero per nessuno che, a
esclusione della serata mondana d'apertura, le gallerie sono deserte
e forse quello di occuparsi di quanto succede nella società dei non
addetti ai lavori e al di fuori del mercato è un modo per riportare
l’arte nel solco che è sempre stato suo, in quell’humus popolare
che è fecondo di creatività). Che la body art sia anche
un'interpretazione della realtà sociale, che l'artista tenda anche
(sottolineo questi due anche) ad assumere su di sé simbolicamente un
sentimento latente nella società (in questo caso, di colpa), non c'è
alcun dubbio, ma se il tramite comunicativo della performance sono
le fotografie pubblicate è solo su questa base che devo formulare il
mio giudizio di valore.
E qui si apre una questione importante. In arte è la bellezza
che deve fare da veicolo della comunicazione, ma cosa intendiamo per
bellezza? Certamente non il raccapriccio a cui spesso ricorre il body
artista: gli esempi delle due performance fotografate nelle immagini
riprodotte, l’una di Marina Abramovic e l’altra di Hermann
Nitsch, procurano a colpo d’occhio la realizzazione precisa di
quanto succede sulla scena, ma, rifletto, l'arte vera nasconde allo
stesso artista quanto vuole affermare, accenna, non grida, l'arte è
l'equilibrio perfetto nel dolore, per questo non spiattella ai
quattro venti la propria emozione. E il discorso vale per artisti
famosi che lavorano con la performance e col corpo, come per tutti
gli altri (oserei dire per inciso che uno dei limiti propri dell’arte
di Francis Bacon a mio avviso è proprio questo). Leonardo, che
d'arte forse se ne intendeva, raccomandava: “lassate ogne passione”.
Ma affermando questo posso aver generato il sospetto ch'io sia
un purista. Per chiarire questo eventuale equivoco Tony Graffio mi
sollecita a dire la mia sull'arte pura, le ibridazioni e l'arte
“moltiplicata”. Questa è la mia risposta:
Duchamp un secolo fa ha allargato il
campo dell'oggetto d'arte visiva, una volta chiuso negli orticelli
della pittura e della scultura, e lo ha fatto con una nonchalance che
ne ha rivoluzionato l'approccio. La storia è nota a tutti; non starò
certo qui a ripeterla e non ho la pretesa di riscriverne una nuova
versione. Mi sono sempre chiesto però, e tutto il mio blog Fuori dai
denti ne è testimone, se quella nonchalance non abbia introdotto nei
campicelli anche un tarlo pericoloso. Il suo nome è letteratura. Già
lui ne ha abusato e soprattutto in qualche modo provocato il fiume di
quella di altri sulle sue geniali pensate (non c'è critico che non
ci si sia immerso con passione, anche positivamente). Ma la
letteratura ha fatto il suo ingresso trionfale nell'arte visiva
soprattutto con i surrealisti, che han pescato a piene mani simboli
già indagati dalla psicanalisi. Si pensi a quel pittoraccio di
Magritte [1].
Magritte
Sono cosciente del sobbalzo sulla seggiola di chi legge
quest'aggettivo. Il mio scopo però non è sollevare una polemica su
questo artista, che con un pennello inesperto dell'arte, ignorante di
tutte le conquiste visive operate fino allora, a mio modesto avviso
ha dato la stura a ogni sorta di discorsi intelligenti: la questione
è importante a prescindere da lui [1]. Se io incrocio due linee un po'
massicce ad angolo retto, quasi automaticamente richiamo il simbolo
del cristianesimo oppure sparo sulla Croce Rossa. Può essere una
scelta, che andava bene a Beuys e a Tapies, ma meno ad Albers e
Rotko, che avevano in orrore qualsiasi sia pur lontano rapporto col
simbolo.
Una di Rotko
Una di Tapies
Infine una di Albers
Ma l'arte astratta, per noi pignoli osservatori di tutto il mondo
che ruota attorno alla comunicazione, non esiste, con buona pace di
Malevic, perché già attaccare un quadrato scuro su sfondo bianco o
una croce elementare a una parete, soprattutto condendolo con una
serie di prese di posizione “letterarie” molto aggressive, è un
gesto concreto, metaforico almeno. Cioè sta per altro. Quando,
in un'espressione artistica che si affida all'occhio, un discorso o
una parola sono essenziali, subito nascono i miei sospetti: io non
devo capire cosa l'artista mi vuol dire e, se è un vero artista,
anche lui non deve capirlo fino in fondo. In altre parole, il simbolo
non è un banale riferimento a qualcos'altro (che sarebbe allora solo
metafora), ma come dice l'etimologia, racchiude in sé molti
significati, alcuni dei quali certamente non definibili, soprattutto
non definibili a parole. Questo intendo per non letterarietà del
simbolo, come invece è la maggior parte delle invenzioni di
Magritte, che pesca sempre le sue trovate nel campicello del
“medicone viennese” (l'epiteto dato a Freud, ironia della sorte,
è di un grande letterato, Nabokov [2]) e come si sa quello curava la
malattia della parola.
Per tagliare un po' e arrivare a mettere sul tappeto una questione
importante che ha a che vedere con ciò di cui mi ha invitato a
parlare Tony Graffio (Body Art e ibridazioni), ho la sensazione
che quella che si è soliti nominare come arte ibridata, che poi
finisce anch'essa nelle gallerie e nei musei (per lo più sotto forma
di fotografie) oppure, alternativamente, sui blog e negli altri
social network che si chiamano fuori dai canali tradizionali, soffra
di presunzione e fondamentalmente offra uno spettacolo di
superficialità. Non tutto intendiamoci, ma l'accento non va posto
sull'ibridazione.
In altre parole, non basta essere spericolati,
aperti ad altri linguaggi, disinibiti. Certi esempi di altissima arte
scenica, si pensi per esempio al balletto di Monteverde per il Lago
dei cigni, ridimensionano una valanga di tentativi di usare il
proprio corpo per comunicare alcunché. Ripeto, anche quello del
cinico Diogene era teatro, anche se non pretendeva di essere arte
visiva, ma solo (solo?) filosofia.
E' maturo qui l'aggancio alla
questione che mi si pone della contrapposizione delle ibridazioni
all'arte pura. Che significa questo termine? Mi sembra di aver già
risposto parlando dei campicelli. Quando Piero Fogliati [3] costruisce
le sue sofisticate macchine per produrre effetti luminosi o di
leggerezza, fa della scultura, della pittura, o della tecnologia
pura? Visto che espone principalmente nei Musei della Scienza e della
Tecnica, certamente non fa del balletto o del teatro e nemmeno della
fotografia. Che devo dire? Fa della poesia, questo è certo.
Purtroppo, per liquidare anche la questione inaugurata da Benjamin,
non moltiplicabile come una calcografia o una foto, ma è un puro
accidente.
Piero Fogliati
Del resto quello della moltiplicazione è un falso problema. Svincolato dalla questione del mercato che, come ripeto da sempre, deforma e volgarizza l'opera, diventa un dilemma da poco. Ho già fatto quest'esempio: con tecnologie digitali sofisticatissime, un gruppo di esperti inglese ha riprodotto Le Nozze di Cana di Veronese e l'enorme dipinto (l'originale è al Louvre) è ritornato nel refettorio del convento di S. Giorgio, alla Fondazione Cini di Venezia, per la gioia di tutti (la sua ambientazione è importantissima): è perfetto (ha richiesto due anni di lavoro e sono state riprodotte perfino le rugosità della tela originale). Peccato solo che sia costato un'enormità.
Quindi, con buona pace dell'utopia della riproduzione dell'opera
d'arte o dell'evento performativo, ci fa piacere che ne esistano di
irripetibili, che so, per esempio quel determinato concerto eseguito
in quel determinato giorno dal Pollini di turno o dal cantautore
cabarettista ecc, ma ci fa piacere anche che esistano i musei, i
galleristi e i collezionisti: aspiriamo alla massima diffusione
possibile ma, con l'avvertenza che è l'attenzione visiva a dover
tenere le briglie del cocchio. In altre parole, se la rivoluzione
digitale mi permette per es. di riprodurre in copie di molte migliaia
la delicatezza sfumata di una buona punta secca, ben venga la
moltiplicazione. Purtroppo oggi ciò non è ancora riuscito
pienamente con mezzi economici e come conseguenza, chissà fino a
quando, siamo costretti anche a tenerci il mercato (e le sue
ipertrofie, i suoi falsi, le sue boutades, per lo meno nel mondo,
solo così detto, libero). Questo non è però un alibi per smettere
di cercare di fare poesia. Senza fondamentalismi. Benjamin era un
grande filosofo; fuggendo da Auschwitz (il riferimento è quanto ha
detto sul valore simbolico di quel campo il suo amico Adorno [4] riportato nel post di Fuori dai denti del gennaio 17 scorso), è
morto suicida al confine con la Spagna: un mondo era crollato, non
aveva più alcuna voglia di vivere. Noi siamo qui per contribuire a
costruirne uno nuovo, per cercare di dare speranze a chi le ha perse
del tutto, ma senza fondamentalismi. Federico de Leonardis
Il quadro dipinto da veronese si trova oggi al Louvre
Note
1 Potrei subissare il lettore di immagini relative ai quadri di
questo famosissimo belga. Chi non lo conosce apra internet nella
sezione immagini per farsi un'idea veloce su cosa intendo: a Magritte
non interessa il mezzo pittura, ma cosa dire.
2 Il padre di Lolita, in Intransigenze (Adelphi).
3 - 4 Mi scuso con i veri artisti a cui ho rubato le immagini
digitali, ma con questa nota voglio avvertire il lettore che il
richiamo mnemonico a queste opere deve servire da incentivo a vederle
coi propri occhi, direttamente. Mi riferisco, oltre a Fogliati, a
Beuys, Tapies, Albers, Rotko e naturalmente Veronese.
4 La citazione da Adorno non è di facile comprensione, ma è basilare per capire che l'estetica senza l'etica non vale nulla.
“Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità. Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e spirito. Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e così la degrada ancora una volta a menzogna.”
“Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità. Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e spirito. Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e così la degrada ancora una volta a menzogna.”
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