domenica 17 maggio 2015

Le Grand Verre rivisitato 100 anni dopo, a Milano, da artisti multimediali

Le grand Verre 100 anni dopo
Marco Grassi nel suo laboratorio di via Tertulliano
Nikkormat FTN e Kodak Colorplus 200

Le Grand Verre fu un'opera ambiziosa ed innovativa che assorbì Marcel Duchamp per circa dieci anni della sua vita e voleva stravolgere la visione dell'arte pittorica che considerava il quadro come una finestra sul mondo in cui esistevano diversi piani che consentivano, attraverso la prospettiva, i rapporti di contrasto, d'illuminazione e di colore di porre il soggetto in un sistema illusoriamente tridimensionale.
Nel grande vetro lavorato da Duchamp, secondo una tecnica che poneva delle lastre di metallo inciso, fili di piombo polvere e pittura ad olio all'interno di un supporto trasparente e fragile, veniva eliminato il rapporto tra i diversi piani prospettici, non esisteva più un soggetto principale ed uno sfondo, ma semplicemente un'unica dimensione all'interno del vetro.
Duchamp ha aperto un percorso che ha rivoluzionato tutta l'arte moderna, non cercando un canone estetico quanto un'azione concettuale al tempo stesso delirante e minuziosa. Le sue opere hanno segnato tappe importanti del pensiero moderno e Le Grand Verre rimane qualcosa di enigmatico e depistante, in quanto è incorso in un incidente che ne ha visto la rottura durante un trasporto ed ha lasciato il suo autore nell'imbarazzo di dover scegliere cosa fare con il suo lavoro più prezioso distrutto.
Duchamp decise d'accettare la fragilità dell'oggetto che stava trattando come una caratteristica intrinseca dell'opera, i pezzi furono rimessi insieme ed il quadro-non-quadro si trova tutt'ora al Philadelphia Museum of Art.
Partendo da questo presupposto che vede l'errore, l'imprevisto e la materia presente in natura come una specie di fattore concatenato al processo artistico, Marco Grassi e Matteo Bologna stanno lavorando ad un progetto che s'ispira alle trasparenze ed alla loro inafferrabilità. Tony Graffio

Marco Grassi a fianco di un suo negativo-non negativo.

Tony Graffio intervista Marco Grassi sul progetto del Grand Verre milanese

TG -Ciao Marco, spiegami chi sei e cosa fai.

MG -Sono Marco Grassi, in arte Pho, un artista nato e cresciuto a Milano, vengo fuori da un'esperienza legata alla strada, ai graffiti ed alla street art, se la si vuole chiamare così, ho 39 anni. 
Adesso, insieme a Matteo Bologna stiamo lavorando a questo progetto che si chiama “Le Grand Verre”, in omaggio all'omonima opera di Marcel Duchamp, un'idea che abbiamo avuto per ottenere un'opera in cui si mischiano le tecniche della fotomeccanica, o della fotografia tradizionale analogica e provare a vedere cosa succede unendole alla pittura. Volevamo utilizzare materiali che non fossero per forza negativi fotografici e sostituire alla trasparenza fotografica, la materia, come carte e materiali vari per poi provare a stampare e sviluppare. Noi realizziamo dei negativi fatti a mano che possono essere costituiti da applicazioni di materiali vari: pittura, accumulazioni, cere e tutti quegli elementi che ci permettono di giocare sulle trasparenze perché poi questi negativi fatti a mano andranno dentro un bromografo di grandi dimensioni che abbiamo costruito noi con del materiale riciclato per ottenere i nostri rayographs, ovvero delle fotografie a contatto.

TG -Chi collabora con te a quest'idea?

MG -Siamo Matteo Bologna ed io. Siamo vecchi amici, ex compagni del liceo artistico, Matteo è stato per quasi 10 anni in Brasile, è tornato a vivere a Milano ed abbiamo deciso di riprendere la collaborazione creativa, dopo che per anni avevamo fatto graffiti insieme, sotto il nome di 16k che era la nostra crew. Dopo quell'esperienza Matteo ha svolto l'attività di videomaker e fotografo, mentre io sono rimasto “un pittore tradizionale”.
Rincontrandoci lui portava con sé questa grossa esperienza della fotografia, mentre io con l'esperienza della pittura abbiamo deciso di vedere se c'era modo d'unire queste due esperienze e probabilmente i rayographs sono stati lo strumento che ci ha facilitato maggiormente la maniera per incontrarci.

Il grande bromografo auto-costruito è al centro del laboratorio di Marco Grassi.

TG -Qui dove ci troviamo adesso è il tuo laboratorio?

MG -Sì, questo è il mio laboratorio ed il 22 maggio inaugureremo questo spazio e tutto il percorso del Grande Verre che ormai ha 3 anni, perché da quando siamo qui, ci occupiamo di questo progetto.
Quando Matteo ritornò a Milano mi contattò e mi chiese se avevo un piccolo spazio a disposizione per lui per poterne ricavare una camera oscura o una piccola saletta di montaggio.
Io gli risposi che non c'erano problemi. Da lì, in realtà, stando tutti i giorni a stretto contatto è arrivata quasi spontaneamente l'idea di provare a fare qualcosa insieme.
Già l'anno scorso a Berlino avevamo presentato questo percorso mostrando delle proiezioni nella galleria con la quale lavoro in Germania già da 6 anni, la Circle Culture Gallery. Trattandosi di una collettiva, abbiamo fatto vedere solo parzialmente i risultati della nostra ricerca, mentre a breve avremo modo di dare un respiro più ampio al progetto e riuscire a far capire meglio quello che stiamo facendo, perché da una parte ci saranno i rayographs, dall'altra proiezione di diapositive positive di piccolo formato dipinte e realizzate a mano. Questi lavori,in realtà sono collegati, in quanto abbiamo iniziato a sperimentare sui vetrini delle diapositive, per poi capire che si poteva offrire un prodotto culturale diverso, andando ad agire direttamente su un quadro fotografico di grande formato che risulta essere un pezzo unico fruibile in modo più tradizionale.
Una volta trovati quei materiali semitrasparenti che funzionavano nelle proiezioni, abbiamo ricreato un'esperienza analoga anche con il bromografo, andando a sensibilizzare lastre di materiali diversi con una gelatina fotografica fotosensibile e frapponendo poi elementi già sperimentati tra la luce del bromografo e la superficie da esporre.

TG -Siete partiti dal piccolo per espandere poi la vostra esperienza in modo da colpire maggiormente la fantasia e l'entusiasmo del pubblico?

MG -Siamo partiti dal piccolo perché Matteo aveva fatto già un'esperienza del genere negli anni 1990. Accorgendoci che una volta proiettati i suoi lavori uscivano dei quadri astratti stupendi; lì abbiamo capito che c'era del materiale valido sul quale potevamo lavorare insieme, perché anch'io ho un'esperienza astratto-formale come pittore.
Continuando a lavorare con le diapositive abbiamo capito quali erano i materiali più interessanti da utilizzare come le veline e le trasparenze.
Abbiamo costruito un primo bromografo di un metro per un metro col quale abbiamo iniziato ad ottenere i primi risultati, poi ne abbiamo costruito un altro di un metro e mezzo per un metro e mezzo con il quale abbiamo prodotte dei rayographs più importanti che poi abbiamo portato a Berlino che erano pezzi di m. 1,4 X 1,2 emulsionati a mano. Per quanto non sia fotografia tradizionale poiché le immagini vengono stampate a contatto, il risultato è abbastanza importante.

TG -Come definiresti questo lavoro, una ricerca tecnica? Concettuale? Di materiali? O estetica?

MG -Credo che sia un insieme di tutte queste cose perché c'è chiaramente una ricerca tecnica legata alla fotografia, all'emulsione a alla luce e dei rapporti che si creano tra la luce e la materia. C'è una ricerca concettuale perché c'è quest'idea d'andare a recuperare dalla strada tutta una serie di elementi, come se noi in strada avessimo portato tantissimo negli anni e adesso incominciassimo a prendere quello che ci serve, proprio dalla strada. Quindi c'è un'idea di recupero, oltre che un'idea compositiva che è concettuale ed è astratta e poi tutti gli altri aspetti che tu hai citato.

TG -Volevo chiederti una cosa che potresti anche prendere come una provocazione, ma io volevo sapere se questo lavoro è più il recupero di vecchie tecniche o l'elaborazione di un nuovo metodo creativo?

MG -Per andare avanti bisogna sempre guardarsi indietro, noi assolutamente recuperiamo una serie di tecniche antiche che andiamo leggermente a decontestualizzare per poi raccontare il contemporaneo.
Sì, è vero utilizziamo tecniche antiche perché hanno un aspetto artigianale molto più forte dove l'espressività per noi è molto più libera. L'idea di potersi creare un negativo non impedisce di affiancarci un negativo reale per lavorare con la “realtà” che il negativo tradizionale riesce a catturare, o qualcosa di molto vicino al reale. Mentre l'idea  è di poter modificare il negativo non in post-produzione, ma fisicamente che non è più il negativo che passa attraverso un ingranditore, quindi non si tratta di una pellicola. 
Noi trattiamo con negativi di circa m. 1,50 X1,50 che diventano dei quadri.
Quando io lavoro sul negativo è come se lavorassi su una tela. Questo lavoro è tutto un insieme di situazioni che considerarlo solo la rivalutazione di una vecchia tecnica mi sembra un po' riduttivo, perché non è così. Non perché ci sia qualche problema, l'idea è quella di riprendere dei vecchi metodi abbandonati, l'emulsione liquida che noi utilizziamo è qualcosa di sempre più difficile da trovare, probabilmente tra qualche anno, quando il nostro fornitore si stancherà di farla arrivare dalla Germania, non ci sarà nemmeno più in Italia perché magari saremo solo in 5 ad utilizzarla, probabilmente allora si perderà anche quella possibilità d'utilizzare un prodotto già pronto.
Effettivamente anche la fotografia in pellicola ed il cinema stanno scomparendo.
L'ultimo film prodotto in Italia in pellicola è stata: “La grande bellezza”, ma perché c'erano i mezzi per poterlo fare, bisognerà vedere se ce ne sarà un altro ancora. Io ne parlavo l'altro giorno con Silvio Soldini di questa cosa.

Un rayogramme di Grassi-Bologna ancora nella maxi bacinella di lavaggio posizionata sopra lo scarico delle acque reflue.

TG -Tornando all'emulsione liquida della Rollei che state usando, ritenete che sia abbastanza valida o no?

MG -Stiamo sperimentando. Ci sono stati dei difetti che per noi potrebbero anche non essere tali, in quanto noi dialoghiamo molto con l'errore: uno degli aspetti concettuali del nostro lavoro è l'accettazione dell'errore. Le Grand Verre, nasce proprio da questa cosa qua. Siccome Le Grand Verre fu un'opera che si ruppe inavvertitamente e diede molto da pensare a Duchamp che non seppe se rifarla, se accettarne l'errore, accettare la natura del vetro che in effetti è fragile e si può rompere, in questo senso il nostro lavoro ha un aspetto Dada molto concettuale. L'errore addirittura può diventare il soggetto principale dell'opera, anche se era da noi completamente escluso ed ignorato, perché il caso può far sì appunto che vengano fuori delle cose inattese.
Qua, per esempio ci sono uscite delle crepature (mi mostra una parte sul bordo del suo rayogramme) perché abbiamo sciacquato l'immagine in maniera troppo energica ed è venuta via l'emulsione. Io adesso non so dirti, non essendo io un chimico, se è un problema dell'emulsione o del nostro operato, però alla fine ne è uscita una texture che va a dialogare con quegli effetti che ricerchiamo noi, perché noi cerchiamo di restituire quest'idea di vecchio muro distrutto dal tempo, di mattoni e materiali abbandonati in strada.
Fin che ci sono degli errori tecnici nell'emulsione che in qualche modo vanno nella direzione che noi stiamo cercando, là l'errore può diventare assolutamente attore dell'opera. L'emulsione, personalmente, io la lavoro da tre anni, quindi non ne ho un'esperienza tale da poterne valutare la qualità. Non me la sento, sinceramente, però  di darne un giudizio negativo. Per quello che serve a noi, per ora, funziona.


Bacinella di fissaggio de: Le Grand Verre.


Bacinella di sviluppo de: Le Grand Verre.

TG -Ricapitoliamo un po' quali sono i vostri strumenti di lavoro: un acetato, o un vetro?

MG –Sì abbiamo usato vari materiali trasparenti; ultimamente abbiamo recuperato dei pezzi di vetro. A proposito di vetro, durante la manifestazione che c'è stata qui a Milano contro Expo 2015, ci sono stati gli incidenti ed io sono andato a fare delle fotografie per me stesso, ma non di reportage. Per caso ero lì ed ho scattato banalmente col mio telefono. Ho fatto una fotografia che mi è rimasta ed ho fatto vedere anche a Matteo, di questa vetrina di un cristallo che sarà stato spesso 1,5 cm completamente distrutto. Sembrava un'opera. Non perché questo fatto si portasse dietro motivazioni politiche, della banca e dei no global, ma perché nel suo concreto, la stesura di scritte, sicuramente fatte prima della rottura e poi l'insieme di questi elementi di vetro ha creato quasi una scultura cubista. Da lì, poi mi è venuto il desiderio di riportare nel bromografo qualcosa del genere, in maniera grezza, casuale, senza stare troppo lì a ragionare sulla composizione, o chissà che cosa, quasi fosse un'operazione esistenzialista, semplicemente cercando di riportarne il risultato, senza neanche troppo volerne calcare l'aspetto politico. 
Questo per dirti che i supporti non devono essere per forza degli acetati. Abbiamo anche provato a utilizzare anche dei compensati leggeri, tutto quello che può avere trasparenza va bene, in funzione anche delle lampade che utilizziamo, perché il principio è lo stesso della radiografia del braccio.
Avessimo a disposizione i raggi X, potremmo quasi radiografare anche una lastra d'acciaio.

TG -In sintesi, per produrre i vostri rayograph a voi servono delle lampade. Che tipo di lampade?

MG –Si tratta di lampade banalissime, lampade ad incandescenza da 42 Watt. Abbiamo sistemato una ventina di queste lampade in un bromografo che abbiamo costruito con pezzi di librerie di amici, quindi c'è anche questo aspetto del recupero e del riciclaggio che a noi piace. L'unico pezzo che abbiamo dovuto comprare è stato un grande vetro dello spessore di cm 1,5 che è poi la superficie sulla quale noi andiamo ad appoggiare i nostri “negativi” che poi non sono veri negativi; adesso qua è appoggiata una carta opalina plastificata con sopra un'accumulazione di cera fusa e poi distrutta. Questi materiali ci restituiscono un effetto simile ad un muro scrostato.

Marco Grassi, artista, 39 anni

TG -L'emulsione dove viene stesa?

MG –L'emulsione la stendiamo su una carta 100% cotone della Fabriano sui 300 grammi di peso. Adesso invece, per la prima volta stiamo provando a stampare direttamente su legno. Si tratta di un compensato di circa un centimetro di spessore preparato con una mano di fondo alla cementite. I bordi e la parte posteriore li trattiamo col flatting per impermeabilizzarne la superficie che verrà esposta ai bagni di sviluppo.
Abbiamo provato anche a stampare su ferro, ferro arrugginito, metalli, vari, abbiamo fatto un po' di sperimentazione ed abbiamo capito che l'emulsione liquida è comunque un compromesso.

TG -Ci dipingete sopra, alla fine?

MG -No, questo no, sarebbe per me una forzatura. Dipingere prima il negativo è tutto quello che facciamo. Dipingere sulla fotografia è una cosa che non vedo di buon occhio.

TG -Io, da fotografo, ho qualche dubbio sull'emulsione liquida perché non credo possano avere una grande stabilità nel tempo, avete previsto una degradazione di questo materiale?

MG -Sono materiali che vanno fissati e protetti; effettivamente si sono create delle crepature e dei distaccamenti di emulsione ai bordi di alcune tavole che abbiamo utilizzato, studieremo un sistema che permetta un migliore aggrappaggio di questi prodotti chimici alle superfici delle nostre opere.

TG -Quali sono gli aspetti che vi interessano maggiormente in questo lavoro?

MG –Rispetto anche a quello che dicevamo prima sui rayographs, quello che a noi interessa è poter analizzare e fermare attraverso l'”immagine fotografica” tutti quegli effetti, non vorrei chiamarli speciali perché non mi piace il rimando concettuale, ma si tratta poi di quello, in sostanza, che avvengono attraverso il passaggio della luce nella materia.
Se prendiamo, ad esempio, la singola striatura della pennellata, il deposito di cera, o la singola goccia di un dripping, posso dire che un conto è fotografarle o vederle su una tela; un'altra cosa è vederle fissate nel tempo su una tela attraverso il passaggio della luce. Quella forma non cambia, a meno che non la sfochi, assume delle presenze quasi metafisiche nello spazio. Dei fantasmi. Questo perché tra la leggerezza della pennellata e l'intrusione della luce era stata disegnata una forma che se tu andavi a fotografarla altre cinquantamila volte, non ti sarebbe mai venuta così. Quello che interessa noi è proprio quest'intrusione della luce all'interno della materia e tutto quello che ne deriva.


 Matteo Bologna, artista multimediale, 39 anni

TG -Bene, mi sembra di capire che voi siete ancora in una fase di prova e sperimentazione, però mi stavi dicendo che stavate anche organizzando una mostra, è così?

MG -Sì è vero, siamo ancora in fase di sperimentazione e venerdì 22 maggio faremo una mostra all'interno del capannone dove ci troviamo adesso e siamo già in fase di allestimento per poter accogliere le opere. Ci teniamo a farlo in questo posto che è il nostro laboratorio, in modo da lasciare il bromografo, le vasche e tutta l'attrezzatura che usiamo per la nostra produzione artistica, per poter far comprendere meglio al visitatore ciò che facciamo.

TG -Quante opere esporrete?

MG -Ci saranno tre grandi rayographs di circa m. 1,4 X 1,2, ci sarà una proiezione di diapositive con 48 immagini che abbiamo già presentato a Berlino nel 2014 ed infine ci saranno anche una serie di opere di Jaybo Monk che è il terzo artista impegnato in questa impresa.


Jaybo Monk, artista d'origine francese


Un oggetto inutile ideato da Jaybo Monk

Jaybo è un mio caro amico di Berlino col quale ho già collaborato in passato, anche lui trova le sue radici nella Street art ed oggi è un artista multimediale che si esprime con la fotografia, la pittura, la scultura. E' il terzo elemento del progetto: “Le Grand Verre” ed il 22 maggio segnerà la prima volta in cui Jaybo parteciperà al nostro lavoro portando altri oggetti che io non ho ancora visto dal vivo, ma soltanto in fotografia. 
Il suo arrivo durante la mostra sarà l'occasione per ufficializzare la sua presenza nel nostro gruppo, anche se il suo apporto non s'è ancora manifestato attraverso il metodo che abbiamo in mente che è quello di mischiare le nostre idee su un unico soggetto. 
Io e Matteo stiamo già operando in questo modo, anche se non è una cosa sempre facile.
La mostra è inserita all'interno di un evento che si chiama “Te District” perché la proprietaria di tutto quest'area, la signora Patrizia Macchi ha deciso di far conoscere meglio questo suo spazio, sull'onda di un articolo uscito sul Corriere della Sera in cui io ero intervistato, così come altri artisti presenti qui allo Spazio Tertulliano in via Tertulliano n. 70. Vogliamo raccontare come questo posto sia diventata una zona ad alta concentrazione di creativi. Oltre a noi, qui c'è dotdotdot, un grosso studio di grafica e progettazione multidisciplinare che fonde l'architettura, l'allestimento, il design con l'innovazione tecnologica. C'è Laboratorio Controprogetto, un laboratorio di progettazione e produzione d'arredi su misura, pezzi unici e allestimenti realizzati prevalentemente con materiali di recupero. C'è un pool di agenzie che operano nel settore della comunicazione e fanno capo al gruppo Promos, c'è l'Avantgarden Gallery che in questi giorni presenta una mostra con opere di Ozmo, Luca Font, James Kalinda e Scarful. C'è Bianca, un'altra Galleria d'arte, c'è Art e Musica, un'associazione culturale, Goganga, uno storico locale milanese che ha ospitato spettacoli di artisti come Vinicio Capossela, Zucchero Fornaciari, Alberto Camerini e molti altri. C'è un teatro, la Dance House di Susanna Beltrami, Baobab studio che dispone di una sala di posa di m 8 X14,50 e tutta una serie di realtà che stanno venendo fuori molto bene nell'ambiente artistico milanese. Io forse sono l'ultimo arrivato in ordine cronologico, in questo spazio.

Un collage di Marco Grassi

TG -Cambiando un po' argomento, una domanda che può interessare i collezionisti: a quanto vendete le vostre opere?

MG -Le nostre opere sono già state vendute in galleria a Berlino e sono in vendita al loro valore di mercato che è di 5.000 euro per un quadro di m. 1,4 X 1,20. Ogni quadro, ovviamente è un pezzo unico. Non è né una fotografia, né una pittura, ma un ibrido che sta a metà strada tra pittura e fotografia. Invito te e tutti i lettori del tuo blog a venire a vedere la mostra del 22 maggio e spero di rivederti anche dopo, per farti conoscere Matteo e Jaybo che stanno facendo altri lavori interessanti.

Matteo Bologna sta costruendo una grande fotocamera a lastre per proseguire ed integrare il progetto insieme a Marco Grassi e Jaybo Monk, apportando nuovi elementi di realtà.


TG -Mi hai detto che anche Silvio Soldini s'è interessato al vostro lavoro, come mai?

MG -Soldini sta facendo un documentario su Milano, all'interno di un progetto della sua casa di produzione che si chiama Lumière che ha chiamato vari registi per raccontare Milano attraverso dei cortometraggi. Soldini ha voluto servirsi dello sguardo di 3 personaggi diversi per il suo racconto, uno di questi personaggi doveva essere un artista, per cui lui mi ha contattato attraverso un amico comune.
In un primo incontro, Silvio ha cercato di capire quello che facevamo e cosa avremmo fatto a breve, perché a lui interessava capire come risolvere questa cosa velocemente, perché sembra che il suo documentario verrà presentato alla Mostra di Venezia, il prossimo settembre.
Ho spiegato a Soldini il progetto del Grand Verre, a lui è piaciuto e quindi poi è venuto qui in diverse occasioni per fare le riprese del nostro lavoro. Ha documentato l'intero processo creativo, sia delle diapositive, sia stando qua una notte intera per filmare quello che facevamo per creare una nostra opera, includendo nel racconto anche il processo di sviluppo.
In più c'è tutta una parte girata in esterni in cui mi si vede mentre mi muovo per la città mentre frequento dei luoghi dove io prendo ispirazione. Io normalmente scatto molte fotografie in luoghi dimenticati, abbandonati che per me sono stati importanti, tipo, vecchie ferrovie, depositi dei treni, squat e così via, perché lì io posso osservare degli elementi degradati della città che poi è l'estetica che ci interessa.
Siamo stati anche in un luogo dove io vado spesso a recuperare dei manifesti pubblicitari che mi servono come soggetti dei miei lavori.
Abbiamo vagato in vari posti, in una specie di no man's land dove puoi trovare di tutto, con dei ritmi vitali propri di chi ci vive dentro. Da questi posti emergono delle situazioni che nella città più frequentata dalle persone è difficile che resistano. Mi riferisco a certi materiali abbandonati che restano in certi spazi fino a degradarsi completamente ed a perdere la loro identità, tipo le traversine di legno dei treni, lastre di ferro arrugginite e cose così che proseguono il loro processo degenerativo, nel corso del tempo.

Una diapositiva che farà parte della proiezione del 22 maggio.


Un'altra diapositiva autoprodotta.


Un particolare di una diapositiva proiettata su un telaio di legno appoggiato alla parete dello studio del collettivo artistico.


La diapositiva è stata fatta con pezzi di nastro adesivo trasparente rigati con un taglierino. Il tutto ingrandito produce l'effetto che vedete in quest'immagine.


Matteo Bologna e Marco Grassi si confrontano durante la proiezione che hanno velocemente approntato per Tony Graffio.

TG -Il tuo è perciò anche un lavoro sul tempo?

MG -Sì assolutamente, a me interessa il rapporto tra la materia ed il tempo, mi piace vedere come i materiali vengano recuperati nella natura: il legno nei boschi, il ferro nella terra e come poi l'uomo intervenga per trasformarli in materiali ed oggetti per costruire altre cose. Una volta che poi questi prodotti non servono più e vengono abbandonati, è come se ridiventassero indigeni al loro territorio originario, perdendo l'aspetto artificiale che gli ha dato l'uomo. 
Il rapporto che la materia ha all'interno di una città, in una continua trasformazione di forme, colori e sostanza è fonte di grande interesse per me, perché questi processi naturali raccontano il tempo che passa.

TG -Possiamo dire che tu racconti nelle tue opere della luce, della materia e del tempo?

MG -Esatto, queste sono le tre situazioni che insieme vanno a creare la nostra estetica.


Il capannone/laboratorio dove si sta sviluppando il progetto del Grand Verre milanese

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