Qualche settimana fa, a Milano, casualmente, ho visto una mostra fotografica abbastanza intimista di un fotografo che ha esposto le sue immagini in un'enoteca del quartiere Isola. Sono rimasto stupito dalla qualità degli scatti, così ho voluto contattare l'autore per chiedergli un'intervista ed ho scoperto che quelle immagini sono state realizzate da un fotogiornalista abbastanza conosciuto che è il fondatore ed il direttore di un'agenzia fotografica molto attiva negli approfondimenti geopolitici degli eventi internazionali nelle situazioni di crisi, la Echo photojournalism.
Gianmarco Maraviglia ha 41 anni e si è formato come fotografo presso l'Istituto Europeo di Design, dopo un percorso un po' discontinuo in varie facoltà universitarie.
Dopo una lunga passione per la fotografia è riuscito ad occuparsi di ciò che lo interessava veramente. Olivia's roots è un suo lavoro un po' particolare che fonde il suo mondo privato con la sua visione professionale. T.G.
Tony Graffio intervista Gianmarco Maraviglia
Transilvania, Romania. Una ragazza controlla gli animali al pascolo. Fotografia di Gianmarco Maraviglia
TG- Ciao Gianmarco volevo
capire meglio qual'è argomento trattato ne: Le radici di Olivia.
GM- Ciao Tony, la mostra
che hai visto si chiama Olivia's roots e fa vedere delle fotografie
scattate durante alcuni viaggi un po' interiorizzanti, alla ricerca
dei luoghi in cui hanno vissuto i progenitori di una bambina dei
nostri giorni.
Ho iniziato questo lavoro
5 anni fa e me ne sono occupato per circa 3, a momenti alterni,
perché questo tipo di progetto esula dall'attività giornalistica ed
editoriale. E' stato un progetto a lungo termine che ho fatto senza
preoccuparmi di dovergli poi trovare una collocazione sui giornali,
sapendo però che questo tipo di discorso ti permette d'avere
l'autorevolezza per fare delle mostre o dei libri.
Si tratta di una storia
per immagini che racconta le origini della mia prima figlia, Olivia,
che
ha i nonni che sono nati
e vissuti in quattro paesi diversi.
Germania, Friburgo. Cornelia e Olivia attraverso una bolla di sapone. Fotografia di Gianmarco Maraviglia
TG- Come sei arrivato
alla fotografia di reportage?
GM- Ci sono arrivato
attraverso un percorso abbastanza elaborato e discontinuo; dopo aver
frequentato l'università, mi sono iscritto ad un corso dello IED, da
lì ho iniziato a lavorare in campo fotografico facendo lavori
diversi: all'inizio come “paparazzo”, poi occupandomi di
fotografare le macchine. Sono passato anche attraverso la fotografia
di moda e di food, per un breve periodo, mi sono dedicato ad
esperienze di vario tipo, fino a quando sono stato chiamato a
dirigere un'agenzia fotogiornalistica.
Per qualche anno, ho
ricoperto questo importante ruolo all'interno di una società
italiana, ma non facevo parte del gruppo dei fotografi di
quell'agenzia di stampa.
Questa esperienza mi ha
fatto capire che io stesso volevo lavorare in un'agenzia con delle
caratteristiche ben precise che fossero congegnate al mio modo
d'essere e che mi permettessero di effettuare un approfondimento
giornalistico dei fatti trattati.
Due anni e mezzo fa, ho
fondato Echo Photojournalism ed ho chiamato a collaborare con me
degli amici e dei colleghi internazionali con cui avevo già avuto
modo di lavorare e siamo diventati una piccola famiglia che si occupa
di varie tematiche.
TG- Perché hai scelto di
fare del reportage?
GM- Mah, io considero il
reportage come una missione, allo stesso modo di chi sceglie di fare
il medico o il prete. Io non avevo intenzione di fare nient'altro al
di fuori di questa cosa, perché a tutti noi che facciamo questo
lavoro piace sentirci parte di quello che succede nel mondo. Questa
scelta nasce ovviamente anche da un forte desiderio di denunciare
alcune situazioni perché crediamo molto nel valore etico di portare
all'attenzione del pubblico certe storie che magari non sono molto
conosciute. Ci piace anche aver la possibilità di viaggiare, essere
al centro di quello che succede.
Sono un po' queste le mie
motivazioni.
TG- Spiegami meglio
queste affermazioni, ti interessa vivere nella tua epoca e nei fatti
che contraddistiguono questi tempi? O vuoi essere nel pieno
dell'evento per vivere totalmente l'esperienza conoscitiva di ciò
che avviene?
GM- Entrambe le cose,
poiché queste ragioni sono molto collegate tra loro.
Come giornalista,
ovviamente, faccio dell'informazione un valore assoluto; i tempi in
cui oggi vivo hanno un senso solo se conosco un po' tutto di quello
che avviene nel mondo.
Io non riesco a vivere
per compartimenti stagni, no? Quello che io vivo qui in Italia è
influenzato da quello che sta succedendo in Siria, o in Iraq, o anche
in Svezia, se dovesse succedere qualcosa in Svezia. Penso che questo
faccia un po' parte del sentirsi cittadino del mondo, consapevole di
quello che succede globalmente e non solo a casa tua, o nel tuo
quartiere.
TG- Possiamo dire che si
tratta di un interesse politico?
GM- Assolutamente,
diciamo che è un interesse di tipo geo-politico.
Egitto, New Cairo. Guardie a protezione del tribunale in cui si sta tenendo il processo a Mubarak. Fotografia di Gianmarco Maraviglia
TG- Perché hai chiamato
la tua agenzia Echo?
GM- La mia agenzia si
chiama Echo all'inglese, ma il significato italiano è lo stesso:
eco, perché crediamo che quello che accade nel mondo, i grandi
avvenimenti, che possono andare dalle guerre, alle rivoluzioni, ai
grandi drammi internazionali, così come gli eventi lieti, felici, o
importanti per altri motivi, lascino di loro una eco e questa eco
sia origine di altre storie. I miei collaboratori ed io siamo più
interessati a raccontare le storie che nascono dalla eco che queste
storie lasciano nel mondo, piuttosto che raccontare l'evento stesso.
L'idea è quella di non
seguire la prima linea, per esempio di quando accade una guerra,
perché riteniamo che si capisca poco, solo dal raccontare quello che
accade negli avanposti. Noi preferiamo arrivare un po' dopo e vedere
che cosa sta succedendo raccontando le storie delle persone che hanno
subito l'evento, o che l'hanno vissuto in prima persona. E' un
giornalismo più lento, se vuoi, rispetto a chi fa giornalismo in
senso stretto, mentre noi ci prendiamo un po' più di tempo per fare
l'approfondimento delle nostre storie.
Irpinia, Casalbore. Una tipica scena italiana, anziani e bambini prima di una processione. Fotografia di Gianmarco Maraviglia
TG- Secondo te, esiste
anche un valore artistico delle fotografie che scatti in certe
situazioni di cronaca, o d'approfondimento?
GM- Io non mi considero
un artista, ma non mi piace nemmeno la parola fotogiornalista per
descrivere il mio lavoro; io vorrei invertire i valori in campo
perché l'etica giornalistica che mi permette di raccontare le
fotografie che scatto è più importante, per me, delle mie stesse
immagini, che ormai possono avere un valore relativo.
Il fotogiornalismo
portato nelle gallerie è un discorso che stiamo iniziando ad
affrontare perché stiamo iniziando a capire che c'è un interesse
anche da parte di questo mercato che conosco poco, anche se capisco
che la stessa storia la si può raccontare con un approccio visivo
che può essere più adatto ad essere esposto in una galleria.
Questo fatto va
benissimo, fintanto che tu non vai a compromettere l'integrità della
storia che stai raccontando in quel momento. Si tratta semplicemente
di raccontare una storia con un mezzo diverso, come può capitare di
farlo raccontandola col video, per esempio.
Il fotogiornalismo, la
fotografia d'arte ed il videoreportage sono tre approcci visivi
diversi, per tre media diversi. La cosa importante non è che
mezzo stai utilizzando in quel momento, ma che la storia che tu
racconti rimanga la stessa.
Gianmarco Maraviglia, direttore di Echo Photojournalism al suo computer di casa
TG- Il reportage funziona
se lo si esprime sulle pagine dei giornali attraverso più scatti,
mentre in galleria si può presentare o vendere anche una fotografia
unica di quello stesso evento? Oppure voi proponete una serie di
fotografie di quella storia anche alle gallerie?
GM- Noi proponiamo una
serie di fotografie visivamente coerenti tra di loro. In genere noi,
per il reportage, facciamo una selezione che va dalle 25 alle 40
fotografie, sapendo benissimo che il giornale quando poi ne
utilizzerà 6,7,8, ne ha già utilizzate tante.
Questo è un grosso tema,
perché noi comunque torniamo da un viaggio di diverse settimane, se
non di più, con 7,8, 9, diecimila fotografie di un reportage.
Dobbiamo fare quindi un grosso lavoro di scelta. Prima ce ne
occupiamo arrivando a selezionare un centinaio d'immagini, dopo di
che si fa una selezione definitiva in agenzia di circa una
cinquantina di fotografie, poi il giornale te ne pubblicherà 6,7,8,
quando va bene. Diciamo, per un massimo di dieci immagini.
La galleria invece fa
tutto un altro tipo di discorso, può selezionare anche solo 5
fotografie coerenti nell'ambito della stessa storia Ad una galleria
puoi proporre 10 immagini molto seriali per poi venderne una ad un
collezionista ed un'altra ad un altra persona, non è importante che
in quel caso si capisca precisamente ciò che si raccionta, ma conta
il fatto che ogni fotografia ha dietro una storia.
TG- In un reportage come
si scelgono le immagini che fanno poi farte della storia? E'
importante che abbiano una sequenza cronologica precisa? Devono
mostrare l'ambiente nella sua totalità e nel dettaglio (vari piani
della stessa situazione)? Oppure ciò che conta è il momento
saliente dell'azione? Come si descrive una storia?
GM- Questa è una domanda
molto impegnativa. Intanto, bisogna dire che ognuno di noi che si
pone sul mercato internazionale, ad un livello abbastanza elevato,
per fare un certo tipo di giornalismo, non è un semplice cronista
che va sul posto a prendere delle immagini.
Tutti noi siamo degli
autori con un nostro specifico linguaggio che caratterizza ognuno di
noi. Le fotografia di un fotogiornalista con un suo linguaggio sono
immediatamente riconoscibili.
TG- Tu mi stai parlando
di linguaggio o di stile?
GM- Non so bene definire
lo stile in fotiografia, per linguaggio io intendo il tuo modo di
raccontare una storia che comprende perfino la storia stessa che tu
decidi di raccontare.
Capita spesso che ti puoi
indirizzare in un filone di storie che sono vicine al tuo tipo di
sensibilità e possono essere molto simili tra loro. Oppure di storie
molto diverse che però conservano un nucleo comune di un discorso
che tu hai gà fatto in altre storie. Questo fatto costituisce la tua
uniformità narrativa. Poi, naturalmente, ognuno ha un suo modo
d'approcciare il soggetto, d'inquadrarlo, d'utilizzare le luci. Ci
sono tantissimi parametri che concorrono a formare un tuo linguaggio.
Anche il tempo concorre a formare il tuo linguaggio, perché il
linguaggio si forma, a volte, per degli errori che puoi aver fatto, ma
che emotivamente ti piacciono, o ti possono andare bene.
TG- Chi sceglie le
storie? Lo fa il fotografo? O l'agenzia? Si cerca un autore che possa
essere più adatto alla storia? Come si procede?
GM- Generalmente la
storia è scelta dal fotografo, poi ovviamente, se ne parla in
agenzia.
Le agenzie contemporanee,
come la nostra, sono diverse da quelle di un tempo. Le agenzie di 25
anni fa che avevano la capacità di produrre le storie e pagarle non
esistono più. L'agenzia oggi serve a tante altre cose, serve anche a
fare gruppo, avere un confronto interno, una linea editoriale, una
diffusione del lavoro poi a livello commerciale, ma non certo a
produrre una storia. Ogni fotografo si paga la produzione della
propria storia ed è abbastanza normale che sia lui ad anticipare
costi e spese per effettuare il servizio.
Noi siamo un'agenzia
abbastanza particolare, siamo quasi un collettivo, ma è l'agenzia
che ha un confronto col fotogiornalista che propone una storia.
Spesso sono io a decidere l'interesse, o meno, che pensiamo possa
avere il mondo editoriale per quella storia; quindi io ti posso dire:
guarda, secondo me, questa storia qua è meglio se non la facciamo
perché non funziona, non interessa, non riusciamo poi a venderla.
Transilvania, Bica. Benedizione ortodossa di Olivia. Fotografia di Gianmarco Maraviglia
TG- Può capitare di non
riuscire a rientrare con le spese?
GM- Può succedere, però,
per fortuna, lavoriamo in un mercato abbastanza globale, sicuramente
il mercato italiano non è il nostro mercato di riferimento. Noi
vendiamo non tantissimo in Italia, vendiamo molto, molto di più
all'estero. Estero vuol dire tanti paesi per cui noi riusciamo a
vendere la stessa storia in più di un paese e quando tu la vendi in
2 o 3 paesi, ovviamente rientri bene.
TG- Vi capita d'essere
gli unici reporter presenti in un determinato posto? O potete
trovarvi a lavorare tra altri reporter provenienti da altre zone del
mondo?
GM- Noi, non facendo
attualità, magari andiamo a raccontare delle storie che abbiamo
trovato leggendo un trafiletto di un giornale del Pakistan o del
Nagorno Karabakh.
E' difficile che qualcuno
vada sulla stessa storia, però è anche ovvio che noi cerchiamo di
raccontare delle storie che abbiano qualche colleganento con
l'attualità, perché quello che cercano i giornali è esattamente
questo: un retroscena di qualcosa che è già sulle pagine dei
giornali.
TG- Le storie tornano
anche ad essere d'attualità...
GM- Sì, le storie
tornano d'attualità a seconda degli eventi, infatti noi proponiamo
spesso delle nostre storie già realizzate un anno prima, due anni
prima, anche su tematiche che per vari motivi sono tornate attuali.
TG- Tornando al reportage
di carattere familiare che ci fa vedere Olivia e le zone del mondo da
cui arrivano i suoi nonni, dove sono state riprese quelle fotografie?
E cosa volevi dirci in quel modo?
GM- Le fotografie sono
state scattate in Italia, Egitto, Romania e Germania, paesi in cui
sono nati i nonni d'Olivia. Con questo lavoro, ho voluto far capire
che io sono favorevole ad ogni tipo di contaminazione culturale,
linguistico e di dialogo. Più i popoli si mischiano, più si
ottengono esperienze interessanti. Mia figlia ha sei anni, ha
viaggiato tantissimo, parla due lingue, sta imparando la terza, si
trova a suo agio in qualsiasi parte del mondo tu la metta, queste
sono cose che per me contano molto.
TG- Questo lavoro andrà
ancora avanti nel tempo?
GM- No, non penso, è
stato molto difficile dire: è finito. Essendo un lavoro sulla mia
famiglia avrei potuto andare avanti all'infinito. Non ho mai nemmeno
proposto questo lavoro a livello editoriale, ne ho fatto delle mostre
ed ho partecipato a dei festival di fotogiornalismo, ma è un po'
difficile che qualcuno lo voglia utilizzare per raccontare una
storia. Adesso sto per inaugurare una nuova mostra di cui vi parlerò
presto.
Gianmarco Maraviglia, fotogiornalista, 41 anni
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